Canto 12 - Terra

Inferno

QUASI UN DIARIO DI VIAGGIO di Lamberto Lambertini
Il presidente della Dante di Siena ci ospita con contagioso entusiasmo. Ci sentiamo meno ignoranti, percorrendo i sotterranei Bottini che portavano l'acqua, con ingegneristica precisione nelle fontane, nei pozzi e nelle case, rendendo potente una città priva di fiume. Per festeggiare, golosamente, e orgogliosamente, ci apre le porte del Museo della Torre. Amate Contrade.

I Bottini
Al di sotto della città medioevale meglio conservata d'Italia si estende una articolata rete di acquedotti costruiti a partire dal XIII secolo. I "bottini" senesi, come vengono chiamati, avevano lo scopo di captare l'acqua in zone del sottosuolo ricche di falde, per condurle fino alle grandi fontane in città.

Museo della Contrada della Torre
Il museo è annesso alla sede della Contrada. L'Oratorio, dedicato ai SS. Giacomo e Cristoforo, fu fatto costruire dalla Fraternita della Concezione per celebrare la vittoria di Camollia (1526) e fu terminato nel 1536. E' stato ristrutturato nel Settecento. Conserva una Andata al Calvario del Sodoma (inizio XVI secolo), una tavola di Giovanni di Lorenzo (1545), una Crocifissione e una Decollazione di San Giacomo di Rutilio Manetti (XVII secolo).
Documenta la storia della contrada conservando ed esponendo i drappelloni e i costumi del palio ed altri arredi.

Sinossi a cura di Aldo Onorati
Sabato 9 aprile; intorno alle quattro del mattino.
Entriamo del secondo grande gruppo di peccatori: i violenti. Nel VII cerchio (primo girone), di cui è guardiano il Minotauro, incarnazione della violenta bestialità, sono puniti i crudeli contro il prossimo e i suoi beni (omicidi, tiranni e predatori).
La pena consiste nell’essere immersi nel fiume di sangue ardente, mentre i centauri li saettano. Il contrappasso si spiega così: il sangue che essi sparsero, è l’elemento della loro sofferenza.
I due viandanti scendono attraverso una frana cagionata dalla venuta di Cristo in Inferno dopo la Resurrezione, giungendo così in una vasta fossa costituita dal Flegetonte, fiume di sangue dentro cui i peccatori soffrono per il resto infinito del tempo a venire. Chi di essi cerca un po’ di refrigerio alzandosi dal bollore oltre il consentito, viene trafitto dalle saette dei centauri.
Come in altri passi di questo ostacolato cammino, qualcuno è sempre pronto ad impedire il proseguimento ai due. Ora è il Minotauro, ascoso in un recesso da cui però scorge chiunque.
Bisogna qui dire alcune cose: Dante non perde occasione per descrivere –nei paralleli – alcune parti d’Italia a lui note direttamente o per averne appreso in letture e testimonianze orali (è necessario immettersi nel secolo dell’Alighieri per comprendere quali fatiche gli studiosi affrontassero onde avere notizie probanti di ogni genere, anche geografiche), e ciò è fondamentale per sottolineare l’amore del poeta non solo alla sua città-stato, ma alla penisola tutta, che egli dividerà attraverso gli Appennini (a destra e a sinistra di essi) e non come noi in tre parti dal Nord al Sud (cfr. De vulgari eloquentia, libro I, cap. X). Per “far vedere” in modo plastico al lettore la “ruina” infernale, cita un immenso scoscendimento: gli slavini di Marco, presso Rovereto, probabilmente noti a Dante per averli visti in uno dei suoi spostamenti durante l’esilio.
La seconda cosa, di cui avremmo dovuto parlare fin dal terzo canto, è questa: i dannati non nominamo mai Dio per nome, ma tramite perifrasi (“se fosse amico il re dell’universo”, c.V, v. 91, etc.).

Dunque, il Minotauro, la vergogna di Creta, concepito da un toro e da Pasife, moglie di Minosse racchiusa in una vacca di legno costruita da Dedalo, si infuria alla vista del pellegrino vivo, ma Virgilio lo distoglie con il ricordargli che non si tratta di un novello Teseo protetto dal filo di Arianna, bensì di uno che visita l’inferno per conoscere le pene dei dannati. Così Dante, approfittando dell’ira cieca del guardiano, passa oltre la sua feroce attenzione.
Presero a scendere per quel dirupo, le cui pietre insicure “moviensi/ sotto i miei piedi per lo novo carco” (v. 30-31). Virgilio non perde occasione per ribadire all’allievo la sua venuta altra volta, prima che Cristo giungesse trionfante e Risorto. Quando il poeta latino arrivò la prima volta per le arti magiche di Eritone, quella “frana” non c’era.
Ed ecco, come sempre, l’autore si immette nella narrazione con riflessioni che sono la sostanza del canto, e la molla del monito: il tutto, contro l’umana stoltezza (di ciò non si dimenticherà mai, neppure in Paradiso: d’altronde, l’itinerarium mentis in Deum ha fondamento su uno scopo prevalentemente educativo e spiritualemnte costruttivo): “Oh cieca cupidigia e ira folle,/ che sì ci sproni nella vita corta, /e ne l’eterna poi sì mal c’immolle!” (v. 49-51). D’altronde, quando il poeta prenderà definitivamente le distanze dal mondo (in Paradiso, XI canto), la protasi è la sintesi del disprezzo commiserato – e non più veemente – dell’umano errore causato dagli smodati desideri terreni che sviano dalla retta strada.

Qui troviamo un’espressione che Dante ripeterà di continuo in tutta l’opera: “Io vidi”: è molto più d’una testimonianza; è quasi un tacito giuramento: nessuno può mettere in dubbio la sua autentica visione delle cose.
Il Flegetonte è ostacolo al cammino. Virgilio chiede al centauro Chirone aiuto, e questi ordina a Nesso di traghettare i due all’altra sponda del fiume, dove si scorgono i tiranni, immersi fino agli occhi nella rossa broda bollente. Nesso li cita: “Quivi si piangon li spietati danni; / quivi è Alessandro, e Dionisio fero…” (v. 106-107), poi Azzolino da Romano, tra i peggiori sanguinari del Medioevo (Ezzelino III, morto nel 1259), e molti altri che non citeremo, perché bisogna soffermarci un attimo su Alessandro. Messo in ordine nominale, viene prima del tiranno di Siracusa, ma cronologicamente il Macedone visse dopo di lui (Dionisio morì nel 367 a. C., mentre Alessando nel 323 a. C.); inoltre, non avendo Dante specificato l’appellativo di distinzione (Magno, oppure il Macedone) da omonimi anche celebri, ci lascia in un dubbio irrisolto. Vediamolo. Benvenuto da Imola scrive: “Per conoscere chi sia questo Alessandro… si può ricorrere a due ragioni: prima, perché quando diciamo Alessandro, si deve intendere per eccellenza il Magno; seconda, perché costui fu il più violento di tutti gli uomini”. C’è una nota aggravante: il Macedone fu violento contro Dio perché si fece appellare lui stesso dio; contro l’umanità, perché aveva sete di sangue. Però, chi afferma trattarsi di Alessandro, tiranno di Fere, ucciso nel 358, porta a sostegno della tesi opposta i seguenti punti: Dante ha parlato bene del Macedone nel Convivio (IV, xi, 14) e nel Monarchia (II, vi, 8-10). Inoltre, Alessandro di Fere e Dionisio (Dionigi il Vecchio) sono messi insieme - appunto come procede qui Dante - da Valerio Massimo e da Cicerone, nonché da Brunetto Latini. Ma la questione rimane aperta, come tante insolute –e insolubili- nel Poema Sacro. Per concludere: non poteva mancare il flagello di Dio, Attila.