Canto 19 - Morte

Inferno

QUASI UN DIARIO DI VIAGGIO di Lamberto Lambertini
Ogni volta che scendevo nel porto di Palermo, in genere con la mia compagnia teatrale, correvo alla cripta dei Cappuccini. Maditavo davanti alla bambina imbalsamata. Ancora mi domando il perché di tanta dedizione. Quindi una visita necessaria al nostro Inferno. Che fatica convincere i frati. Dante fa ancora paura. E quale canto se non questo di Simon Mago, dove tutte le invettive sono contro la Chiesa svenduta? Capisco, è un po' forte, ma in fondo è questo il tema. Morte e corruzione.

XIX - MORTE (Palermo)
Catacombe dei Cappuccini

I sotterranei del Convento dei Cappuccini e della attigua Chiesa della Madonna della Pace conservano oltre ottomila scheletri e corpi mummificati, adagiati in nicchi, casse e urne a cristalli. Deposti tra il 1599 e il 1880, i corpi appartengono a ricchi palermitani; professionisti, donne ed ecclesiastici sono sepolti in corridoi distinti delle catacombe.

Sinossi a cura di Aldo Onorati
L’ora e il giorno sono gli stessi. La bolgia è la terza, quella dei simoniaci, i quali stanno conficcati in ristretti loculi a testa in giù. Dai piedi che sporgono, salgono piccole fiammelle a guisa di lingue di fuoco. Man mano che giungono altri peccatori, le ombre dei dannati vanno sempre più in fondo alle buche, appiattendovisi. Il contrappasso è quasi chiaro: essi introdussero denaro nelle loro borse; così ora sono conficcati in fori di pietra; il capo precede i piedi, perché sono rovesciati, costretti a guardare il fondo, in quanto evitarono di alzare gli occhi al cielo.
È un canto fondamentale nell’economia della “Commedia” e in tutto il pensiero di Dante. Infatti, qui sono puniti, in maggioranza, uomini di Chiesa che hanno approfittato del loro potere spirituale per arricchire se stessi e i “nipoti”, tradendo il messaggio evangelico (dal contesto si capisce pure perché l’Alighieri, parlando di san Francesco -XI, Paradiso- punti quasi completamente sulla povertà, “dispetta e oscura” dalla morte di Cristo fino alle nozze con il poverello di Assisi). La polemica è tesa, e rimanda a diverse altre apostrofi contro chi sfrutta la Chiesa a fini economici e di carriera (“Là dove Cristo tutto dì si merca” etc).
La simonia prende nome da Simon Mago (il quale, come si legge negli “Atti degli Apostoli”, 7, 9-20, esercitava l’arte della magia fra le persone del popolo; giunto Filippo in Samaria a diffondere il Vangelo, fra gli altri – tanti – si convertì pure Simone, ma, notando che con l’imposizione delle mani gli apostoli instillavano nei cuori e nelle menti lo Spirito Santo, tentò di acquistare da Pietro, per denaro, il potere sovrumano; e il primo Papa lo respinse).
Questo è un problema ardente ai tempi del Fiorentino, il quale è preso toto corde dal doloroso tradimento alla realtà cristiana proprio per mano di chi dovrebbe dare esempio di vita parsimoniosa. Infatti, dopo il procedimento in parte comico dei passi precedenti, qui l’incipit stesso è solenne, lo stile alto (tragico), aderente all’entità del danno morale (prima ancora che economico) operato dai simoniaci. Lo sdegno di Dante è immenso, tanto più profondo e sanguinante per quanto più forte è la fede in Cristo e nella stessa Chiesa da parte del pellegrino. In parole povere: in Dante il tono narrativo-lirico-linguistico si adegua sempre alla materia e ai personaggi trattati. Inoltre, a differenza di alcuni canti (lussuriosi, omosessuali etc.), qui l’Alighieri abbraccia senza riserve la decisione di Dio circa la durezza della pena.
Dante non sa quale peccatore sia specificamente interessante da interrogare, perché sono tutti rivolti coi piedi in fiamme un poco fuori dai pertugi tondeggianti nella roccia; quindi, è costretto a inventare un espediente qualsiasi per giustificare al lettore la scelta di un protagonista decisivo al caso e alla polemica che il poeta deve innescare nei vari punti dell’impalcatura aristotelica dei peccati. Allora nota uno che “guizza” più degli altri “e cui più roggia fiamma succia” (e che una vampa più rossa di quelle altrui brucia, v. 33). Portatisi sul quarto argine, presero a “mano stanca” (a sinistra), finché non furono vicini alla fossa di papa Niccolò III (lì Virgilio depone dalle sue braccia l’allievo, data l’estrema difficoltà di incedere).
“Chiunque tu sia, anima infelice conficcata capovolta, come un palo, se puoi, fa motto”, sollecita Dante chinandosi come il frate che vuole confessare il condannato a morte. Ed ecco una tremenda inventiva letteraria che pare naturalissima nella scena, e risolve in anticipo la condanna di Bonifacio VIII (ancora vivente nel 1300) nella bolgia dei simoniaci. Infatti, il Papa Niccolò III, credendo di sentire la voce del suo successore, ironizza: “Sei già qui, Bonifazio? Di parecchi anni mi ha mentito la mia capacità di leggere nel futuro”. Infatti, il successore di papa Celestino V morirà nel 1303. “Ti sei così presto appagato di quella ricchezza per la quale” –seguita il dannato - “non temesti tòrre a ‘nganno/ la bella donna, e poi di farne strazio?” (v. 56-57), cioè la Chiesa, appellata donna in quanto sposa di Cristo.
Il pellegrino rimane interdetto. Allora Virgilio gli ordina di chiarire il frainteso. E la reazione di Papa Niccolò III (regnante dal 1277 al 1280) è di smarrimento, sorpresa, disappunto. Contorce i piedi fiammeggianti, “poi, sospirando e con voce di pianto,/ mi disse: -Dunque che a me richiedi?”(v. 65-66). Quindi, confessa di aver usato le ricchezze della Chiesa per impinguare le proprie tasche e quelle della sua famiglia (gli Orsini). Infatti, Giovanni Villani così lo tratteggia: “ (Fu) il primo papa nella cui corte s’usasse palese simonia per li suoi parenti” (Cron. VII, 54).
“Sotto di me sono precipitati coloro i quali mi precedettero nella simonia, schiacciati nelle fessure della roccia”, continua Niccolò, dicendo che nel buco sarà conficcato anche lui appena “verrà colui ch’i’ credea che tu fossi” (v. 79).
Ora, Dante deve elencare i papi futuri (relativamente all’anno 1300) che cadranno nella buca a causa della Simonia, e rinnova l’artificio usato per delineare il protagonista sconosciuto, il quale continua: “Ad ogni modo, io sono stato più tempo capovolto di quanto vi resterà Bonifazio VIII, perché dopo di lui giungerà qui, da occidente, un papa di natura e opere ancor più laide: egli ricoprirà me e Bonifazio”. Si tratta di Clemente V (Bertrand de Got), prelato francese nelle grazie di re Filippo il Bello (nell’elenco che segue la sinossi generale, vedremo quanti e quali papi si sono succeduti durante l’esistenza di Dante). Alla morte del pontefice odiato dall’Alighieri, venne eletto Benedetto XI, ma il suo regno fu breve. Dopo di lui, ecco il papa che non scelse Roma come sua dimora, ma Bordeaux, Poitiers e Avignone.
A questo punto del discorso, il pellegrino diviene spietato giudice, e, mutando registro, punzecchia Niccolò III (ma si accorge di aver esagerato: “Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle”. V. 88), chiedendogli: “Dimmi, quanto denaro pretese Nostro Signore da san Pietro quando gli consegnò le chiavi? Gli chiese solo –Viemmi retro-. E quando Mattia sostituì Giuda Iscariota, a lui Pietro non tolse di tasca oro né argento”. Poi, il momento in cui il vivente, rincarando la dose sulla ben meritata condanna, mette però una sorta di sipario smussante lo spigoloso rimbrotto: “E se non fosse che ancor lo mi vieta/ la reverenza de le somme chiavi/ che tu tenesti ne la vita lieta, /io userei parole ancor più gravi; /ché la vostra avarizia il mondo attrista/ calcando i buoni e sollevando i pravi” (v. 100-105). Sulla dolorosa verità secondo cui i giusti sono schiacciati dal potere e dall’avidità dei forti, mentre i cattivi salgono in onore e potenza, Dante insiste in più occasioni. Ma qui egli si esprime con estremo sdegno, deprecando l’atto generoso di donazione da parte dell’Imperatore Costantino alla Chiesa (precisamente a Papa Silvestro: 314-336): il potere temporale nato e cresciuto grazie al territorio (che poi Lorenzo Valla, nel 1440, dimostrò essere un falso storico, e che lo stesso Dante, nel Monarchia, III, X, genialmente ne svela l’illegittimità politica).