Canto 22 - Fuoco

Inferno

QUASI UN DIARIO DI VIAGGIO di Lamberto Lambertini
Andavamo, ricercando, tra arcaici riti sopravvissuti, dove domina il fuoco che purifica e consuma. Qualcuno ci segnala che a Novoli, presso Lecce, la "Fòcara" per Sant'Antonio Abate, supera tutti i fuochi, per altezza delle fiamme, per furia di partecipazione popolare. Ancora una volta le riprese sono state come per un vero film. Il tempo lungo della preparazione, della costruzione, dell'accensione. Alla fine, migliaia di persone uscivano nella notte, per un fuoco più alto delle loro case. All'alba, intorno alla brace che già voltava in cenere, barboni di lontane comunità riscaldavano le ossa con sorsi di birra. Attesa devota.

XXII - FUOCO (Novoli-Lecce)
Fòcara di Novoli

Sant'Antonio Abate a Novoli è una delle feste più attese in tutto in Salento. Elementi distintivi della festa sono in primo luogo la Fòcara, il cui allestimento dura circa un mese; si tratta di una enorme piramide fatta di tralci di vite, accatastati l'uno sull'altro da mani esperte. Altro elemento che contraddistingue la festa di Sant'Antonio Abate, è la benedizione degli animali domestici e da cortile.

Sinossi a cura di Aldo Onorati
Siamo ancora all’VIII cerchio, V bolgia, coi barattieri. L’ora è quasi la stessa (le sette del mattino), vista la rapidità con cui si svolgono i fatti.
Come accennato in altra occasione, anche i due canti sui barattieri sono inseparabili per contenuto e continuità. Infatti, Dante seguita a parlare dell’accaduto, affermando che in nessun altro luogo ed occasione, e manifestazione di sfide e di giochi nei combattimenti, ha sentito mai una simile “cennamella” al cui suono si siano mossi cavalieri, pedoni, truppe e navi. La parodia non vuol cessare, anche perché ora ne vedremo di belle, ma constateremo quanto sia arte suprema trovare, da parte di Dante, una giustificazione onde rendere credibile il tempo esterno con la situazione estrema di un dannato, Ciampolo. Ma procediamo per gradi.
“Noi andavam con li diece demoni./ Ahi fiera compagnia! Ma ne la chiesa/ coi santi, e in taverna coi ghiottoni” (v. 13-15). Il Poema Sacro è un’opera che tiene sempre a distanza, e, proprio per ciò, quando si incontrano proverbi, detti popolari, sintagmi di vasto uso etc., ce lo sentiamo più vicino questo poeta che rappresenta (nonostante i tentativi di alcuni pur grandi critici, come il recente Harold Bloom, i quali mettono al primo posto nella classifica mondiale di tutti i tempi Shakespeare) un unicum irripetibile e inimitabile, non fosse altro che per il “Paradiso”, da alcuni tentato (John Milton fra i più alti) ma con risultati inaccostabili a quelli del Nostro, ancorché si tratti di capolavori assoluti.
L’attenzione del pellegrino si puntava alla “pegola”, per poter afferrare qualche segno, qualche indizio di riconoscimento dei peccatori (non dimentichiamo che il fine dell’Alighieri è portare sempre degli exempla). Ed ecco di nuovo trarre dalle letture (es. Plinio) accostamenti con gli animali, questa volta i delfini, che avvertono, “con l’arco de la schiena” i marinai perché sentono la tempesta vicina: è un quadro efficacissimo; i dannati emergono rapidamente e si rintanano dopo il rapido sollievo d’un minor bollore. Ma ecco un altro quadro che va letto all’originale perché renda tutta la sua bellezza (capisco sempre di più quegli stranieri che imparano la nostra lingua solo per gustare Dante fuori dalle traduzioni): “E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso / stanno i ranocchi pur col muso fuori, /sì che celano i piedi e l’altro grosso,/ sì stavan d’ogni parte i peccatori;/ ma come s’appressava Barbariccia,/ così si ritraean sotto i bollori” (v. 25-30). È una pellicola in bianco e nero, in cui il visivo prevale sul suono e sugli afrori. La concretezza di Dante ti porta dentro la scena. Così, appena il diavolo si avvicina, tutti sotto la pece, tranne uno, che Graffiacane “arruncigliò” per “le ‘mpegolate chiome”, tirandolo su che parve una lontra. Ed ecco di nuovo un aizzarsi a parole dei diavoli stessi a danno del barattiere “pescato”. Sembra di assistere ai vivaci e un po’ monotematici incitamenti alle liti fra gentaglia manesca. Ora il grido è generale a incoraggiare Rubicante a scuoiare il malcapitato. Ma Dante cerca, in quel guazzabuglio divertente e amaro, di rapire un attimo, un’occasione quasi impossibile per conoscere il dannato. Bene. Qui siamo a un punto cruciale della narrazione, perché Ciampolo (l’uncinato) non è nelle migliori condizioni per rispondere e rivelarsi, raccontare la sua storia seppure in breve. Tuttavia risponde, ma il suo discorso è troppo lungo –ancorché ridotto all’osso- perché il diavolo possa attendere inattivo nelle sue malvagie funzioni. Però Dante mette riparo a ciò, facendo agire Ciriatto “sannuto” che azzanna con una sua ‘sciabola canina’ il poveretto, lacerandolo: “Tra male gatte era venuto il sorco” (v. 58): un rafforzativo della bestialità generale, che dà l’idea immediata del sadico gioco che fanno i gatti intorno al sorcio afferrato, giocandovi prima di finirlo. Però Barbaroccia, che in certo modo ha assicurato a Virgilio una sua protezione, allarga le braccia per tener lontani i suoi compari, e intima loro di non avvicinarsi finché egli lo inforca (inforcare un cavallo significa stringergli le costole con le gambe del fantino). All’insistenza di Virgilio per sapere se nella lacca nera ci sia qualche italiano, l’avarissimo Ciampolo fa un accenno, dicendo: “Fossi rimasto accanto a lui nella pece!”. Ma Dante sente che è difficile reggere ancora la sospensione delle azioni malvagie, per cui immette nel contesto tesissimo Libicocco, che si lamenta di aver sopportato troppo quella lungaggine; con l’uncino, straccia al dannato un lacerto del corpo. Draghignazzo vuole imitarlo strappandogli un pezzo della gamba, ma il loro decurione li guarda biego. Ciò non allenta, ma rafforza la violenza generale. Così, calmati dall’ordine muto ma eloquente del loro capo, i diavoli sembrano attendere un poco. Virgilio vuol sapere chi è il vicino di pena di cui Ciampolo ha fatto segno. Si tratta di frate Gomita, grande maestro e ufficiale del giudice Nino di Gallura (che incontreremo in Purgatorio, canto VIII, v. 52-81). Frate Gomita, per denaro, fece scappare i prigionieri che Nino aveva affidato alla sua custodia, ma, scoperto, venne impiccato.
Una riflessione tecnica sul verso 86: “ sì com’ È dice; e ne li altri offici anche”; esso presenta difficile lettura a causa delle numerose sinalefi che, non rispettate, potrebbero spostare gli accenti canonici. Ora segnerò in grassetto le fusioni: “sì com’ È dice; e ne li altri offici anche”: i grassetti fanno letti come fossero una sola vocale, la seconda.
Dante tende l’arco, ma sente che sta per spezzarsi; così ricorre a un rimedio, mettendo in bocca proprio al parlante la paura di seguitare a dire: “Omè, vedete l’altro che digrigna; / i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello/ non s’apparecchi a grattarmi la tigna” (v. 91-93, ove si deve intendere il verbo temere nel significato latino, che è opposto al nostro: timeo ut, timeo ne, cioè: temo –spero- che una cosa avvenga; ovvero, temo perché non avvenga, come leggemmo nel III canto :”Temendo no il mio dir gli fosse grave”). Ma il capo della masnada favorisce ancora Virgilio, forse perché piace anche a lui ascoltare –e vedere- un’anima in tale condizioni ridotta, eppure capace di esprimersi ancora con le parole giuste? Ma qui accade un colpo di scena, col quale il poeta salva, recando a buon porto, il pericolo di un’estrema lunghezza in un contesto che la negava. Il barattiere è astuto. Dice: “Se voi volete vedere toscani o lombardi immersi della pece venire fuori a un mio segreto cenno, dovete far cessare dall’agguato continuo i Malebranche e farmi sedere qui un attimo”. Ma Cagnazzo capisce il tiro mancino: “Odi malizia/ ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!” (v. 107-108). E l’astuto Ciampolo ribatte, con estrema sottigliezza: “La mia malizia è davvero immensa, dal momento che causo ai miei colleghi di pena una sofferenza più grande”. Alichino lo avverte che se fugge, lui ha le ali per rincorrerlo e riacchiapparlo da sopra la broda ardente. Poi butta lì la sfida: “Si lasci libero dagli uncini, e vediamo se vale più di noi”. L’avversario è stato sottovalutato: infatti, si infila nella pece in un baleno, cosa che il diavolo non può fare, altrimenti le ali diverrebbero inutilizzabili: “ Quelli andò sotto,/ e quei drizzò volando suso il petto: /non altrimenti l’anitra di botto, /quando ‘l falcon s’appressa, giù s’attuffa,/ ed ei ritorna su crucciato e rotto” (v. 128-132). Il dannato ha dato scacco matto al diavolo in persona! Così, fra i due litiganti il terzo gode, diciamo noi: a godere fu Ciampolo, perché, per rabbia, Calcabrina si avventò su Alichino che aveva fallito il colpo facendosi sfuggire il divertimento comune, ma entrambi si artigliarono, cadendo nel “bogliente stagno”. Li fa salvare Barbariccia da quattro diavoli che li arraffano, prestando anche gli uncini agli “impaniati” come si fa con le gomene per i naufraghi.
Qui finisce il canto. Dante se la sbriga in tal modo: “E noi lasciammo lor così ‘mpacciati” (v. 151).