Canto 23 - Tempus

Purgatorio

XXIII - TEMPUS (Napoli)
Palazzo Reale, smantellamento mostra - Da Sud. Le radici meridionali dell’Unità nazionale
Mostra promossa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Unità tecnica di Missione per le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Sinossi a cura di Aldo Onorati
Mentre Dante scruta fra le verdi foglie del misterioso albero come fanno i cacciatori, Virgilio (“il più che padre”) lo esorta, ancora una volta, a non perdere tempo perché cose più importanti aspettano. Ed ecco che s’ode cantare e piangere: “Labia mea, Domine”, in modo da generare diletto e dolore insieme. Al che il Poeta chiede lumi e Virgilio risponde: “Sono anime che vanno pagando il loro debito con Dio”.
Come i pellegrini che, assorti a guardare il nuovo luogo in cui si trovano, fanno poca attenzione a chi passa, così le anime camminano svelte ammirando i tre oltrepassandoli. Ognuno era talmente magro e scavato negli occhi, che la pelle aderiva alle ossa. Dante porta il paragone con Erisittone, dicendo che neppure lui era ridotto a tanta scarsezza. Erisittone aveva osato squarciare con l’accetta la quercia sacra a Cerere, uccidendo la ninfa che vi aveva dimora. Cerere, per punirlo, impose alla Fame di non dargli tregua, tanto che il malcapitato sbranò se stesso. “Così erano ridotti gli Ebrei durante l’assedio di Gerusalemme quando Maria di Eleazaro divorò il proprio figliolo”, osserva Dante in silenzio. “Parean l’occhiaie anella sanza gemme” (v. 31); inoltre, l’osservazione seguente pone psicologicamente il fenomeno: chi crederebbe che l’odor di un pomo e quello fresco dell’acqua generassero tanta brama? Leggiamo ora uno di quei versi tipicamente danteschi che non vanno spiegati, ma riportati intatti: “Ed ecco dal profondo de la testa / volse a me gli occhi un’ombra e guardò fiso”. Sembrano tornare le potenti descrizioni dell’Inferno, insuperabili nella loro cruda realtà e concretezza. L’anima, irriconoscibile per la sua esilità, viene riconosciuta dal pellegrino grazie al timbro della voce: era Forese Donati, amico di gioventù (del periodo cosiddetto di “traviamento”: si rilegga la Tenzone giocosa e allusiva, in cui Dante, fra gli altri vizi dell’amico, nomina chiaramente quello della gola), morto nel 1296, fratello di Corso e di Piccarda (la incontreremo nel cielo della Luna, in Paradiso), imparentato anche con gemma Donati, sposa dell’Alighieri.
Forese invita l’amico a non far caso a quella “scabbia asciutta” da cui è deformato, e a rivelargli l’identità delle altre due anime che sono in sua compagnia. E Dante: “La tua faccia, che piansi quando tu moristi, mi fa tanta impressione da suscitare in me nuovo dolore e nuovo pianto. Però, ti prego in nome di Dio, rivelami quale arcano vi spoglia così della carne”. Ed egli: “Per potere divino l’acqua e i pomi della pianta mi rendono in tal modo magro. Come me, tutta la gente che piangendo canta, qui paga il peccato della gola attraverso la fame e la sete non placate. Ci stimola a bere e a mangiare l’odore che esala dal gettito e dal frutto. Ogni volta che giriamo intorno allo spiazzo della cornice, la voglia rinnova la pena, sebbene dovrei usare la parola ‘gioia’, perché siamo spinti all’albero dalla stessa volontà che condusse Cristo sulla croce, ove chiamò “Elì” nella letizia del riscatto dal peccato originale per l’intera umanità”.
Dante gli chiede come mai, essendo passati meno di cinque anni dalla sua morte, egli si trovi già qui e non nell’Antipurgatorio dove il Poeta pensava di incontrarlo a causa del ritardo del pentimento in vita. Forese risponde che è merito delle preghiera della sua “vedovella”, se ha evitato i tempi delle attese. Poi aggiunge: “Ella, che molto amai, è sola ad operare nella virtù, poiché le femmine di Firenze sono più corrotte di quelle della Barbagia in Sardegna. Ma non è lontano il tempo in cui dal pergamo i sacerdoti vieteranno ad esse di vestire in modo indecoroso. Non si è mai visto che per costringerle a vestirsi modestamente si sia dovuto impetrare l’aiuto delle autorità religiose. Se queste corrotte, però, prevedessero il castigo che il cielo prepara per loro, già urlerebbero di spavento, perché –se la facoltà di prevedere il futuro non mi inganna proprio ora – soffriranno nel giro di pochi anni, prima che ai loro bambini, i quali adesso si consolano con la ninnananna, cresca la barba sul volto. Deh, fratello, rivelati anche tu, perché non solo io, ma tutti qui si sono accorti che il tuo corpo non lascia passare la luce del sole”. E Dante: “Se tu rammenti la nostra amicizia, non sarà piacevole. Da quel modo di vivere nostro, mi salvò - costui che mi precede - cinque giorni fa, una notte di luna piena. Egli mi ha condotto fin quassù, passando attraverso l’Inferno, e mi consegnerà a Beatrice. E’ Virgilio, mentre l’altro spirito è quello per la cui liberazione dal Purgatorio si scosse la montagna”.