Marcello Fois, La mia Babele

Del tradurre e dell'essere tradotti

All’inizio de La mia Babele (Solferino), Marcello Fois in una giornata di fine marzo si interroga sulla propria voce letteraria e sul processo attraverso il quale il mondo degli scrittori si riversa sulla pagina. Le origini della sua vocazione letteraria sono molto precoci e molto contrastate: a quattro anni impara a leggere da solo; ritenuto un piccolo genio in famiglia viene sommerso di libri a ogni compleanno; legge tutti volumi dell’enciclopedia che gli viene comprata; al ginnasio un supplente gli dice che scrive benissimo, ma all’università s’iscrive a medicina per far contento suo padre. Solo dopo aver dato i primi esami si rende conto della sua infelicità costante e, incontrato il romanzo di Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, decide di voler diventare anche lui uno scrittore. Si trasferisce a Bologna, si laurea con Ezio Raimondi e intanto scrive finché non arriva a vincere il premio Calvino. In tutto questo tempo Fois si appropria, non senza difficoltà, della lingua italiana da sardofono qual è nato e cresciuto. Da qui trae la sua particolare sensibilità linguistica; nella seconda parte del libro “Parole e vita” Fois si sofferma sul rapporto con i traduttori dei suoi libri, a volte molto positivo, altre meno.

Ogni racconto, ogni libro di una grande scrittrice o scrittore, è anche questo lavoro incessante d’interpretazione e traduzione simultanea di un mondo privato che aspira a diventare pubblico; di un istante immobile che aspira al movimento; di un frammento di lievito che fa crescere l’impasto. E questo solo a partire da se stessi, a partire cioè dall’atto elementare di voler narrare.


Marcello Fois è nato a Nùoro nel 1960 e vive a Bologna. Scrittore e sceneggiatore, è autore di libri tradotti in molti paesi. Tra i più recenti: Del dirsi addio (2017), il libro in versi L’infinito non finire (2018), Pietro e Paolo (2019) e L’invenzione degli italiani. Dove ci porta Cuore (2021).