"M" come Malipiero (II)

Quella certa, compiaciuta indeterminatezza

Un estratto da un’intervista a Gian Francesco Malipiero realizzata nel 1962, per il programma Arti e scienze - cronache di attualità. Dalla sua casa ad Asolo, il compositore parla del proprio lavoro di analisi e di trascrizione dei manoscritti di Claudio Monteverdi (1567 - 1643), che iniziò quando era ancora molto giovane. Il Maestro si sofferma anche sulle rigide classificazioni musicali, che ritiene discutibili, su Luigi Nono, sulla musica sperimentale e sul lavoro dei registi teatrali.

Le classificazioni musicali per categoria non le accetto. Io sono libero nel mio spirito e sono quello che sono
Gian Francesco Malipiero


Figlio e “nipote” d’arte (il padre, Luigi, pianista e direttore d'orchestra; il nonno, Francesco, operista stimato da Gioachino Rossini), Gian Francesco Malipiero nacque a Venezia il 18 marzo 1882, e iniziò lo studio del violino nel 1890. Nel 1898, si iscrisse al corso di armonia presso il Conservatorio di Vienna, dove aveva seguito il padre, separato dalla moglie. L’anno successivo, tornò a Venezia, dalla madre, e frequentò il liceo musicale Benedetto Marcello, dedicandosi, in particolar modo, allo studio della composizione. Sulla sua formazione giovanile influì, senza dubbio, il lavoro di analisi e di trascrizione dei manoscritti di Claudio Monteverdi, Ippolito Baccusi, Giovanni Nasco, Alessandro Stradella, Giuseppe Tartini e Baldassarre Galuppi. Nel 1908, a Berlino, seguì le lezioni del tardoromantico Max Bruch, che, pure, al pari di Claude Debussy, influenzò i suoi primi lavori. 

Nel 1911, con Ottorino Respighi e altri giovani compositori, diede vita ad una "lega", che si prefiggeva di costruire la nuova musica italiana sul sinfonismo, svincolandola dal melodramma. La fondazione di questo gruppo era stata preceduta, nel 1910, dalla pubblicazione di un suo articolo sulla “Rivista musicale italiana”, Il pregiudizio della melodia, e seguita, l’anno successivo, da un nuovo testo, La sinfonia italiana dell'avvenire, apparso sulle pagine dello stesso periodico, attraverso i quali Malipiero aveva manifestato quel tipo di posizione. Nel 1913, con un nuovo articolo, Del dramma musicale italiano e dei suoi pregiudizi, pubblicato dalla rivista “Musica”, Malipiero espresse una condanna nei confronti della teatralità, di ogni convenzione e, soprattutto, della figura del cantante, colpevole, a suo avviso, dell'enfasi della vocalità.

In quegli stessi anni, vinceva quattro premi per altrettante composizioni e assistette, a Parigi, alla prima esecuzione del Sacre du printemps di Igor Stravinsky: per il giovane compositore fu una sorta di scarica elettrica, che lo spinse a disconoscere la gran parte di quanto aveva prodotto fino a quel momento. A quell’esperienza seguirono lavori che costituirono delle fasi transitorie nel lungo cammino creativo di Malipiero, fino al decisivo Pause del silenzio (1917) col quale prese forma il suo metodo costruttivo. È lo stesso periodo in cui rafforzò il sodalizio artistico con il coetaneo Alfredo Casella, che aveva fondato la “Società italiana di musica moderna” e la rivista “Ars nova”; in cui collaborò con Fortunato Depero e i suoi Balli plastici delle marionette futuriste; in cui mise in scena Pantea, dramma sinfonico per danzatrice solista, voci fuori scena e orchestra. Ma la fama internazionale raggiunse Malipiero il 10 luglio 1920, quando, a Parigi, la messa in scena delle Sette canzoni provocò scandalo e stimolò importanti critici ad occuparsi di lui.

Nel 1923, con Casella e D'Annunzio lanciò la “Corporazione delle nuove musiche”, accreditandosi, a livello internazionale, come esempio di compositore di avanguardia moderata. Nel 1932, fu coinvolto nelle polemiche suscitate dal Manifesto di musicisti italiani per la tradizione dell’arte romantica dell’800, di cui Respighi era il primo firmatario, seguito da esponenti autorevoli della musica del periodo fascista. Si trattò di una dichiarazione antimodernista particolarmente polemica nei confronti suoi e di Alfredo Casella, che gli costarono, ancora due anni dopo, la contestazione di Favola al Teatro Reale dell'Opera di Roma da parte di un gruppo di sabotatori e la censura del regime fascista.

Gli anni dell’occupazione tedesca, vissuti a Venezia, videro Malipiero impegnato a strappare insegnanti e allievi dalle mani dei nazisti e dei repubblichini. Dal dopoguerra fin quasi ai suoi ultimi giorni, l’artista intensificò sia la scrittura di nuove composizioni, sia l’attività di carattere musicologico e memorialistico.

Gian Francesco Malipiero è stato accusato, da più parti, di cerebralità e tecnicismo. Ciononostante, la critica ha colto nelle sue opere un assoluto predominio della melodia, in cui il discorso musicale è elaborato come un continuo brulicare di idee melodiche, spogliate di ogni carico armonico e strumentale, ma, al bisogno, combinate polifonicamente con una grande libertà tonale e un assiduo ricorso a «modi antichi». E amò profondamente quei modi senza pervenire, però, all’enunciazione di un freddo neoclassicismo. 

Anticonformista, antidogmatico, il maestro veneziano agisce in quella zona lasciata libera dalle varie ‘scuole’, tendenze, ‘ismi’ novecenteschi: ma resta inteso che non si tratta di una zona smilitarizzata. È proprio nell’anti-sistematicità, nella ‘solitudine’ iniziale che si deve cercare la costante dell’arte di Malipiero, l’indipendenza della sua ricerca, unitamente a una certa compiaciuta indeterminatezza.
Armando Gentilucci, musicologo.