Le note di sala del quarto concerto di stagione dell'Orchestra Rai

Le note di sala del quarto concerto di stagione dell'Orchestra Rai

Periklis Koukos, Leonard Bernstein, Charles Ives, Robert Schumann

Le note di sala del quarto concerto di stagione dell'Orchestra Rai
Periklis Koukos
Adagio per orchestra d’archi

Periklis Koukos, nato ad Atene nel 1960, è una figura di primo piano della musica greca d’oggi, non solo per l’ampia produzione musicale, che va dalla musica da camera all’opera, ma anche per l’attività didattica e gli importanti incarichi ricoperti come organizzatore musicale. Allievo di Jannēs A. Papaiōannou, ma con studi di perfezionamento a Vienna e Londra, Koukos si è progressivamente emancipato dallo stile avanguardistico del maestro per cercare un’autonomia stilistica e un maggiore equilibrio tra il linguaggio tonale e una più libera articolazione della dimensione armonica.
Tra i suoi lavori figura anche la cantata I Persiani, scritta nel 1993 e tratta dalla tragedia di Eschilo, dalla quale Koukos ha ricavato un breve Adagio per orchestra d’archi che rappresenta in maniera eloquente, con il suo carattere lirico ed elegiaco, l’estetica neoromantica abbracciata negli anni Novanta

Leonard Bernstein
Serenade per violino, orchestra d’archi, arpa e percussioni dal Symposium di Platone

Se Leonard Bernstein avesse cercato da compositore il successo e la popolarità conquistata come direttore d’orchestra, non avrebbe probabilmente caricato sulla Serenade il fardello dell’arduo confronto con uno dei più complessi e ricercati dialoghi socratici di Platone. Forse il tema del Simposio, la natura dell’amore, poteva suonare familiare al raffinato pubblico della Biennale di Venezia, dove la Serenade fu eseguita per la prima volta il 12 settembre 1954 da Isaac Stern come solista con la Israel Philharmonic Orchestra diretta dall’autore, ma per la maggior parte dei frequentatori delle sale da concerto il libro di Platone era un riferimento non meno oscuro della poesia contemporanea di Wystan H. Auden che aveva ispirato qualche anno prima la Seconda Sinfonia di Bernstein, intitolata The Age of Anxiety. Anche la scelta del titolo Serenade poteva sembrare capricciosa, dal momento che il lavoro non è una composizione leggera e di carattere settecentesco bensì un vero e proprio concerto per violino. Tuttavia non c’è niente di intellettualistico o di radical chic (espressione inventata da Tom Wolfe per descrivere un party a base di droghe e Black Panthers nell’attico di Bernstein a New York) nella scelta di un titolo così impegnativo, che nasconde in realtà un groviglio di emozioni e sentimenti contraddittori legati a un preciso momento della vita del compositore.

Le origini del lavoro risalgono al 1951, quando la Koussevitzky Music Foundation chiese a Bernstein di comporre qualcosa in memoria del fondatore appena scomparso. Il grande direttore d’orchestra Serge Koussevitzky, infatti, era stato insieme ad Aaron Copland uno dei padri musicali di Bernstein, che sopra di loro metteva soltanto Beethoven e Mahler. Il lavoro progredì un po’ nel 1953 ma prese forma definitiva nell’estate successiva, nella splendida villa sull’isola di Martha’s Vineyard, davanti alle coste del Massachusetts, dove Bernstein si era trasferito insieme alla moglie Felicia, alla piccola figlia Alexandra e a uno stuolo di amici, parenti e visitatori al ritorno da Hollywood, dove aveva lavorato alle musiche per il film di Elia Kazan On the Waterfront con protagonista Marlon Brando. A Martha’s Vineyard c’erano anche la scrittrice Lilian Hellman e il librettista John Latouche per lavorare con Bernstein al progetto di Candide, tutti e tre nomi presenti nella lista di artisti e operatori dello spettacolo accusati di comunismo nel famigerato rapporto Red Channels pubblicato dalla rivista «Counterattack». I primi anni di matrimonio con l’attrice Felicia Montealegre, sposata nel 1951, erano stati felici e intensissimi per Bernstein, sia come compositore che come direttore d’orchestra, ma la difficoltà a vivere apertamente la propria condizione di omosessuale, e i sensi di colpa verso la moglie, gettavano costantemente un’ombra sulla propria coscienza che neppure la vita dorata costruita a Martha’s Vineyard riusciva a dissipare. La partitura della Serenade, pubblicata nel 1956 con la parte solistica curata e diteggiata da Stern, riporta un breve commento di Bernstein, scritto «l’8 agosto 1954, il giorno dopo aver terminato la partitura». In questa nota l’autore sottolinea che
la Serenade non ha un programma letterario, nonostante il fatto che essa sia il frutto di una rilettura dell’affascinante dialogo di Platone, Il simposio. La musica, come il dialogo, è una serie di dichiarazioni di lode all’amore collegate tra loro, e in linea generale segue la forma del dialogo platonico tramite la successione di oratori al banchetto
Nel lavoro di Bernstein, gli oratori collegati a ciascun movimento sono: I. Fedro e Pausania, II. Aristofane, III. Erissimaco, IV. Agatone, V. Socrate e Alcibiade. Come al solito le contraddizioni di Bernstein sono sorprendenti e illuminanti, perché nel momento stesso in cui l’autore nega la natura descrittiva del suo lavoro si affretta anche a fornire delle tracce utili per leggere un percorso letterario.
In realtà, Bernstein cerca di esprimere l’impressione lasciata dal libro di Platone su di sé piuttosto che illustrare in termini musicali il contenuto dei singoli discorsi
L’affermazione che si tratta di una «rilettura» non va semplicemente archiviata come una spacconata o un’esibizione di snobismo intellettuale, perché in effetti non era la prima volta che Bernstein dimostrava di avere ben presente il testo di Platone, e di esserne stato profondamente segnato.
Per il corso di scrittura (English Composition) all’Università di Harvard nel 1938, Bernstein scrisse una sorta di racconto autobiografico intitolato The Occult. In questo breve testo si racconta lo sconvolgente incontro del protagonista, un giovane e talentuoso musicista, con il grande direttore d’orchestra greco Eros Mavro, dietro il quale è facile riconoscere la figura di Dimitri Mitropoulos, e la fortissima attrazione reciproca che si sviluppa tra i due
Più volte, nel corso del racconto, viene citata la frase «Platone mette Eros al centro di tutte le emozioni». Non è affatto sorprendente, nell’ambiente intellettuale di Harvard, questa particolare attenzione ai dialoghi del Simposio, un libro che parla apertamente di amore omosessuale, maschile e femminile, della natura bisessuale originaria del genere umano (nel mito raccontato da Aristofane), di Eros come maestro di tutte le Muse. Bernstein, dunque, tornava a riflettere su un libro che aveva illuminato la sua coscienza in un periodo di grandi travagli personali e psicologici, dal rapporto col padre all’incontro con fondamentali figure di riferimento intellettuale e sessuale come Mitropoulos, Auden, Marc Blitzstein.
A distanza di anni, Eros era sempre al centro di tutte le sue emozioni, anche nel contesto di una relazione profonda e autentica come quella con la moglie, con la quale condivideva anche il dramma di vivere l’ebraismo in un mondo che aveva conosciuto la shoah, ironicamente espresso in una delle arie più significative di Candide, “I Am Easily Assimilated”, scritta proprio con la collaborazione di Felicia
Il materiale della Serenade viene in buona parte da un ciclo per pianoforte del 1949-1951, Five Anniversaries, cinque omaggi di compleanno per altrettanti amici o per le loro madri o figlie. Il fatto che quattro movimenti su cinque della Serenade, a eccezione di Agatone, peschino temi o idee musicali da questi piccoli lavori pianistici indicano da una parte come i vari cicli di Anniversaries rappresentino una porta d’accesso privilegiata alla sfera intima di Bernstein, e dall’altra che la lettura del Simposio ha ispirato l’autore a collegare insieme in una forma più ampia e complessa temi che già esistevano, e in un certo senso facevano già parte della sua storia. Il movimento veramente nuovo della Serenade, e sicuramente il centro espressivo dell’intero lavoro, è il penultimo oratore, Agatone, il giovane poeta di bell’aspetto e raffinate maniere che ha offerto il banchetto, amante del poeta Pausania che ha parlato all’inizio della differenza tra l’amore carnale e spirituale, uno volgare e l’altro celeste.
Agatone, un intenso ed espressivo Adagio che ruota nell’orbita della tonalità di re minore, contiene la musica più intima e sentita non solo della Serenade, ma forse dell’intera produzione non teatrale di Bernstein
Nell’introduzione, l’autore sottolinea che il panegirico di Agatone «abbraccia tutti gli aspetti della potenza, del fascino e delle attitudini dell’amore». Qui Bernstein offre un’immagine lirica e struggente di Eros e della sua capacità di imporsi su ogni altra emozione, ma anche della disperata solitudine a cui è condannato chi ne soffre la mancanza, per esempio nella appassionata cadenza del violino che collega la parte centrale al ritorno del tema principale, una maschera tragica che contrasta con il resto del lavoro, tendenzialmente sereno e positivo, e soprattutto con i discorsi finali di Socrate e Alcibiade, dove si scatena lo stile più idiomatico dell’autore di Candide e West Side Story, con il suo linguaggio venato di vocaboli jazz, di ritmi spezzati e irregolari, di suoni prodotti da una batteria di percussioni che richiede ben cinque professori d’orchestra.                  

Charles Ives
Hymn: Largo cantabile, S 84/1

La musica di Charles Ives è intessuta di citazioni tratte da svariate fonti, inni, canzoni patriottiche, marce militari, canti studenteschi e di strada, musica colta. La prassi di comporre sfruttando musica già esistente è antica quanto la storia della musica, naturalmente, ma il caso di Ives è per certi versi unico, perché la sua arte è interamente basata sulla rielaborazione della memoria e dell’esperienza personale. Vale per Ives quanto sosteneva il filosofo Ralph Waldo Emerson, suo punto di riferimento ideale
Un grande uomo cita con coraggio, e non inventa se la sua memoria gli fornisce una parola altrettanto buona. Quello che cita, lo riempie della propria voce e del proprio carattere
Hymn, un breve pezzo per orchestra d’archi indicato come Largo cantabile, è basato su un paio di inni presbiteriani, More Love to Thee e Olivet, usati come temi per sviluppare un libero contrappunto a cinque voci. In origine, le poco più di trenta battute del pezzo erano state scritte nel 1904 per un quartetto d’archi rimasto incompiuto, per essere poi trascritte per orchestra d’archi e inserite in una composizione intitolata A Set of Three Short Pieces. Non è chiaro quando sia stata raggruppata questa suite, ma la sua prima esecuzione documentata, all’University of Syracuse, risale soltanto al 1965, oltre dieci anni dopo la morte dell’autore. Hymn è l’unico dei tre pezzi che può essere eseguito anche separatamente.

Fin dall’inizio della sua attività creativa Ives usò gli inni presbiteriani, che conosceva molto bene da organista in servizio di varie congregazioni, per le proprie sperimentazioni musicali, non solo per ricordare la propria infanzia ma anche per avvolgere attorno alla musica un velo di decoro e di serietà, e per infondere uno spirito comunitario nel ricordo della preghiera, caratteristiche che si ritrovano nella maggior parte dei lavori di Ives indipendentemente dal loro genere e dalle loro dimensioni.     

Robert Schumann
Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore, op. 97
Renana

Nel 1850, alla soglia dei quarant’anni, Schumann accettò l’incarico di direttore musicale a Düsseldorf. Il trasferimento nella città renana era una svolta importante per il compositore sassone, e la proposta fu esaminata a lungo in famiglia per valutarne tutti gli aspetti. Negli anni precedenti, l’esito disastroso delle insurrezioni del 1848-1849 aveva messo in crisi il movimento liberale e riformista tedesco.
Schumann aveva assistito a Dresda alla feroce repressione dell’insurrezione del 1849, con le efferate violenze dei militari sulla popolazione civile, cosa che aveva fatto vacillare ma non cancellare la sua fede nell’azione positiva dell’educazione musicale e della coscienza culturale
Giunto alle soglie della maturità, Schumann aveva accettato di separarsi dalla Sassonia anche per una forma d’impegno culturale nei confronti della società tedesca in senso più ampio. Il nazionalismo liberale degli anni Quaranta, infatti, era di segno ben diverso da quello identitario e sciovinista della nuova destra sorta in Germania dopo l’unificazione voluta dal Cancelliere Bismark. Nietzsche, in un aforisma di Al di là del bene e del male (1885), imputa a Schumann l’origine delle nefaste tendenze nazionaliste del suo tempo: «Con lui incombeva minaccioso sulla musica tedesca il suo più grande pericolo, quello cioè di non essere più una voce per l’anima dell’Europa e di degradarsi a fatto puramente nazionale». Schumann, in realtà, continuava a nutrire la convinzione, malgrado il disastro di Dresda, che la grande voce della cultura tedesca fosse la strada maestra dell’unità nazionale, come aveva propugnato a lungo nel periodo del suo giornalismo militante. La battaglia proseguiva ora come artista, alla testa dell’orchestra sinfonica di una città rinata grazie alla rivoluzione industriale, affacciata sulle rive del Reno, un fiume carico di significati simbolici per la storia tedesca. Il periodo di Düsseldorf, in realtà, si rivelò un completo fallimento artistico e personale. Protestato dall’orchestra, minacciato da una malattia spaventosa, in crisi con la moglie Clara, Schumann colò a picco rapidamente, nonostante la calorosa accoglienza della città e un periodo iniziale di grande fertilità creativa. Appena arrivato, infatti, nell’ottobre 1850, Schumann scrisse di getto in due settimane il Concerto per violoncello, che rimase ineseguito durante la vita dell’autore, e subito dopo i primi abbozzi della Sinfonia in mi bemolle maggiore n. 3, che invece fu eseguita con enorme successo a Düsseldorf il 6 febbraio 1851. 
Il titolo di Renana, in realtà, non fu coniato da Schumann, ma rispecchia l’intenzione dell’autore di conferire al lavoro un messaggio spirituale rivolto alla nuova nazione. Secondo il violinista e primo biografo di Schumann Wilhelm von Wasielewski, l’origine della Sinfonia risale alla vista della Cattedrale di Colonia durante una gita sul Reno. Inoltre, durante la composizione, la notizia della porpora cardinalizia conferita al Vescovo di Colonia indusse Schumann ad aggiungere, prima del Lebhaft finale, un nuovo movimento, che in origine recava l’iscrizione “Im charakter der Begleitung einer feierlichen Ceremonie” (Nel carattere dell’accompagnamento di una solenne cerimonia). Alla fine è rimasta solo la parola “solenne”, ma la selva di voci intrecciate in un austero e toccante stile contrappuntistico e immerse nella penombra della tonalità di mi bemolle minore evoca in maniera potente gli spazi dell’architettura sacra e i riti del cerimoniale religioso. Questo superbo esempio di misticismo musicale coincide con il risveglio di una fede assopita, come testimonia una lettera all’amico August Strackerjan del 13 gennaio 1851: «Dedicare le proprie forze alla musica sacra resta il più alto scopo di un artista. Ma in gioventù siamo ancora troppo radicati alla terra, con le sue gioie e i suoi dolori; con la maturità si aspira bene anche a obiettivi più alti. E dunque spero che anche per me il tempo di questo anelito non sia lontano».   
Il fulcro della scrittura, nel resto del lavoro, è invece l’innesto della musica popolare nel linguaggio dello stile classico. Schumann sosteneva, sempre secondo Wasielewski, che in questa Sinfonia si dovessero trasferire gli elementi popolareschi [volksthümliche Elemente] nella cornice di un linguaggio artistico elevato, e pensava di esserci riuscito. Il primo tema del movimento iniziale, per esempio, si sviluppa in due segmenti distinti, che riecheggiano lo stile della musica popolare. Il primo è una melodia basata sul rapporto emiolio di tre contro due, il secondo è un motivo danzante in 3/4. Ridotti al loro scheletro melodico e armonico, si tratta di una triade ascendente di mi bemolle maggiore e di un tetracordo discendente la b – sol – fa – mi b. L’arte di ricavare dal più banale dei motivi un mondo intero d’impressioni e di ricordi raggiunge qui un vertice. Schumann ammanta questo inizio di una fulvida luce per evocare non solo il maestoso scenario del fiume, ma anche quello spirito laborioso e positivo tradizionalmente associato al mondo del Reno. Il gusto di una musica associata alle tradizioni popolari è assai più evidente, invece, nello Scherzo e nel movimento conclusivo, dove il connubio con la musica d’arte si manifesta nella forma del linguaggio contrappuntistico. Il vasto “poema epico popolare” della Terza Sinfonia, secondo una calzante definizione di John Daverio, racchiude però al suo interno un delicato scrigno di raffinata poesia nel movimento centrale, Nicht schnell, avvolto nella penombra di un’orchestra raccolta e intima, priva di trombe e tromboni. La tinta bruna di clarinetti, fagotti e viole divise in due parti colora all’inizio quest’ora notturna di meditazione e compassione, mentre il dialogo tra gli strumenti, frammentato in fraseggi di breve respiro, non oltrepassa mai la soglia del sussurro.      

Note di sala di Oreste Bossini

Concerto del 7 e 8 novembre Auditorium Rai "Arturo Toscanini" di Torino - biglietti da 9 a 30 euro anche online