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Segantini e "La Vanità"
Un focus di Niccolò D'Agati
Nel 1894, Segantini lascia Savognin e si trasferisce a Maloja, dove concluderà la sua vita a soli quarantun anni mentre, nel 1899, stava lavorava al “Trittico della Natura” sul Monte Schafberg.Scopo finale del mio continuo studiare (è) impossessarmi assolutamente, francamente di tutta la Natura, in tutte le gradazioni, dall’alba al tramonto, dal tramonto all’alba, colla relativa struttura e forma di tutte le cose; onde creare poi energicamente, divinamente l’opera che sarà tutta ideale”
Giovanni Segantini, 1896
A queste date, Segantini era all’apice della sua carriera, le sue opere erano acquistate da importanti personaggi del suo tempo e la sua figura era già stata investita dal mito decadentista dell’artista Vate, del pittore isolato nelle montagne dell’Engadina ad altezze simboliche del contatto spirituale con lo "Spirito della grande Natura".
D’Agati, stimato studioso dell’arte italiana di fine Ottocento e inizio Novecento, (anche curatore scientifico della Galleria G. Segantini di Arco), introduce “La Vanità” premettendo che lo stesso artista lo considerava, 1897, “la mia opera maggiore sino ad oggi”, ossia il più bel quadro Simbolista da lui realizzato.
La giovane si rispecchia in un laghetto alpino dove un dragone quasi “cinese”, che rappresenta l’Invidia, la contempla. Il primo titolo dell’opera, con il quale Segantini la espose alla mostra inaugurale della “Secessione di Vienna" del 1898, con altre ventinove opere, era stato anche “La fonte del male”, proprio per rappresentare il vizio quale origine di devianza morale.In uno spazio quasi onirico, spicca nel suo biancore seducente la figura della Vanità col corpo perlaceo e stilizzato da un disegno di inedita purezza lineare
In questi anni, il pittore portava a termine lavori diversi le cui tematiche riconducevano tutte al Simbolismo europeo. Il tema della donna e della femminilità, allora in voga soprattutto nell’entourage viennese di Klimt, viene svolto da Segantini anche per contrappunti iconografici: dalle visioni allucinate e infanticide de “Le cattive madri” (1894, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna), alle raffinate variazioni attorno alle tematiche della maternità cosmica, soggetto documentato in mostra con un piccolo pastello a matite colorate e dorate, dal titolo “Angelo della vita” (1892).
La genesi della tela è piuttosto lunga. In una lettera del 1896 alla moglie Bice, Segantini aveva scritto “sono in giro a cercare la fonte che deve servire per specchio”: oggi sappiamo che la fonte dipinta dall’artista è vera, come studiato dal vero è l’effetto di luce sul manto erboso del quale il pittore ne interruppe la lavorazione in inverno, per poter studiare ed “esprimere la freschezza dell’erba roggiadosa”, solo con la primavera dell’anno successivo.La “Vanità”, essendo un’opera simbolica, deve essere letta soprattutto in rapporto al linguaggio che Segantini adotta”
Niccolò D’Agati
In questa Natura, come dice il pittore, “stretta nel pugno”, conosciuta e studiata in tutte le sue manifestazioni fin dagli anni briantei (Segantini e François Millet), sta il grande tema segantiniano degli anni Novanta.
L’idealismo del pittore nella sua complessa e articolata genesi svela un passaggio fondamentale negli anni di nascita della pittura moderna: la tecnica pittorica diviene forma e al tempo stesso, contenuto dell’idea.Una Natura ora ancor più vitale perché rafforzata dall’idea di una spiritualità immanente, connaturata alla sua grandiosità
Lo studio della luce e del colore naturale, nonché delle forme della natura, per Segantini è funzionale alla creazione dell’opera “ideale”: l’archetipo della primavera è incarnato nel verde rutilante composto da uno sfavillio di colori complementari che modulano luci e toni della superficie. Ugualmente, lo stesso vitalismo lo si ritrova nel valore grafico del segno, nelle traiettorie ascendenti della trama pittorica che trasfigurano il dato naturale in un’armonia di forme, luci e colori.
Segantini non copia semplicemente la realtà, ma la ricrea, come accade anche in “Ramo di Cembro” (1896-1898), nel quale l’artista astrae dal dato naturale una serie ritmica di linee. Espressive in tal senso, anche le incompiute raffigurazioni dei fiori, “Edelweiss” e “Rododendro” (1898-1899), parti del “Trittico della Natura”, a testimoniare come l’artista fosse riuscito, quando la morte ne troncò la sfolgorante e pur breve carriera, a tradurre in una forma pittorica gli accordi studiati sul vero restituendo così l’essenza del fiore, il rosso del rododendro che rappresenta l’amore e il bianco delle stelle alpine, simboli della purezza delle Alpi.Le morbide linearità delle colline che fanno da sfondo alla Vanità, richiamano le delicate curve del corpo femminile, tutto stilizzato e proteso verso lo specchio d’acqua
I fiori, già dipinti nel periodo brianteo, quando l’artista studiava a fondo nelle sue “nature morte” gli accostamenti di colore e le più svariate cromie, in questa fase Simbolista quasi rappresentano Dio.
Le opere esposte a Vienna nel 1898, tra cui “La Vanità” apparivano al pittore e critico d’arte William Ritter (1867–1955), amico e conoscitore dell’opera di Segantini, simili a preziosi oggetti di gran lusso per la preziosità del manufatto, per una materia simile a un ricamo di colori lucidi e setosi, grazie anche all’abbondante uso di oro e argento che l’artista sempre più mischiava in sottili filamenti al colore (Segantini e Pascoli di primavera)Voglio che il quadro sia il pensiero fuso nel colore. I fiori sono fatti così, e questa è l’arte divina”
Giovanni Segantini, 1889
INFO MOSTRA
Giovanni Segantini
Museo Civico di Bassano del Grappa, Piazza Garibaldi 34 (VI)
25 ottobre 2025 – 22 febbraio 2026
Aperta tutti i giorni 10:00-19:00. Chiusa i martedì
FOTO DI COPERTINA
Giovanni Segantini, La Vanità, 1897, olio su tela, 77x124cm., Kunsthaus, Zurigo