La Cappella Dogale della Repubblica

Palazzo Ducale di Genova

Incastonata negli spazi monumentali del Palazzo Ducale di Genova, rinnovati negli anni Settanta del Settecento in chiave ormai neoclassica, si trova una delle cappelle secentesche più significative e meglio conservate di tutta l’antica Repubblica, la Cappella del Doge

Nel Palazzo del Doge (o semplicemente Päxo, in lingua genovese), uno spazio adibito a cappella sive ecclesia palacii, è documentato sin dal 1367, con significative riprogettazioni culminanti in una ristrutturazione architettonica attorno al 1580. 
Molti i documenti d’archivio che raccontano la fase successiva della Cappella Dogale, quella tra il 1653 e 1657, quando una ricchissima decorazione di gusto spiccatamente Barocco, la rende il gioiello ancor oggi integralmente visibile. 



La decorazione seicentesca assomma al suo interno non solo una valenza artistica, ma anche e soprattutto, una forte programmatica politica e culturale, incentrata nella figura della Vergine Maria. Data al 1637, infatti, l’originale soluzione adottata dalla Repubblica di Genova di trasformare il proprio ordinamento politico in una monarchia, salvo poi intestare a Maria Vergine la corona e dunque, non dover rendere conto del proprio operato a nessun monarca mortale, che non fosse il solito Doge biennale, il cui potere, era in realtà ben meno significativo nei fatti di quanto non apparisse in potenza. L’escamotage doveva permettere alla piccola Repubblica, che aveva tenuto e in parte ancora teneva tra le mani gran parte della finanza Europea e non solo, di passare da pari alle altre teste coronate nel cerimoniale internazionale, senza subire quelle marginalizzazioni che, a partire dalle prime quiebras del 1607 e del 1627, si facevano sempre più frequenti, soprattutto da parte dei Reali di Spagna, stizziti per i monumentali guadagni dei genovesi costituiti dagli enormi interessi lucrati sui prestiti concessi alla Corona. 


Giovanni Battista Carlone, Maria Regina di Genova, volta della Cappella Dogale, affresco

A pochi anni da questa decisione clamorosa, un’importante missione diplomatica della corte spagnola, condotta da Anton Giulio Brignole Sale, vuole convincere Felipe IV a riconoscere ufficialmente Genova una monarchia. L’aristocratico genovese però, non solo non ebbe il successo sperato dal Senato della Repubblica (un successo su cui lui stesso, a quanto dicono le carte autografe, nutriva sin dall’inizio seri dubbi), ma in tre anni di permanenza a corte (1640-1643), riuscì a vedere solo due volte Sua Maestà e in entrambe, non gli fu concesso d’entrare in argomento. 
Tuttavia, la grande macchina politica era stata messa in moto e per comunicare una tale epocale decisione, era assolutamente necessario costituire de facto, un’immagine nuova che potesse indicare il nuovo ruolo ricoperto da Maria nei confronti di tutti i genovesi. 

Maria Vergine Regina di Genova, Francesco Maria Schiaffino, 1740 ca., Cappella Dogale 

La Madonna Regina di Genova, che regge lo scettro e il Bimbo con in mano il cartiglio Et rege eos, ad indicarne il mandato di governo nei confronti della città, divenne subito iconografia di propaganda da trasmettere urbi et orbi. Domenico Fiasella ne creò il prototipo in dipinti che raffiguravano l’effige della Vergine sovrastante la città stessa, cinta dalle poderose Mura Nuove, terminate proprio nel 1635. Le immagini vennero inviate alle comunità genovesi in tutta Italia, da Napoli a Palermo e a Messina, fino a Roma, dove tutte le rinnovate porte cittadine vennero dotate di sculture dedicate alla Regina della Città. L’altar maggiore della Cattedrale di San Lorenzo, ricevette una strepitosa fusione in bronzo della Madonna Regina, attribuita a Giovan Battista Bianco, ma molto probabilmente eseguita dal fiorentino Francesco Fanelli. Ai piedi della Vergine, si stende una minuziosa raffigurazione della Superba, in cui spicca la ciclopica cinta muraria all’interno della quale, ancora oggi, la città è contenuta pressoché integrale.

Poteva, dunque, il centro ideologico del potere cittadino rimanere senza una precisa connotazione relativa a questa significativa nuova relazione tra la grandiosa storia della Città e la Madonna? 

Certamente no, per cui a mettere mano a questa nuova istanza decorativa, nel 1653, venne chiamato quello che a metà Seicento era il titolare della principale ditta artistica della città: Giovanni Battista Carlone. Lui e il fratello Giovanni, avevano già decorato le intere navate della Basilica dell’Annunziata del Vastato (Basilica della Santissima Annunziata del Vastato), il palazzo di Giacomo Lomellini e la chiesa di Sant’Antonio Abate a Milano, dove Giovanni era morto, anzitempo, nel 1631. Giovanni Battista aveva poi proseguito con mirabolanti imprese ad affresco in decine di altri siti urbani ed extraurbani, sviluppando, di fatto, gli stilemi del trionfale Barocco nei clamorosi episodi della Galleria di Enea (Palazzo Ayrolo Negrone, 1650 ca.) e della Basilica di San Siro (1651-56 ca.; La Basilica di San Siro). Tra queste due ultime ciclopiche imprese, si colloca la decorazione della Cappella del Doge, in via di conclusione già nel 1655, quando il letterato e politico Luca Assarino, indirizzava una dedica a Giovanni Battista Carlone nel quarto libro dei suoi Giuochi di Fortuna, pubblicati a Venezia proprio in quell’anno: 

Ma più d’ogne cosa fa oggigiorno testimonianza delle prerogative della vostra mano la real cappella di questo Serenissimo Senato, che attualmente state ora dipingendo, le figure della quale non so che di vita e moto, fanno restare immobili per lo stupore le pupille che arrivano ad affissarvisi
Luca Assarino, 1655

L’impresa pittorica del Carlone è ancora oggi clamorosamente coinvolgente. Entrati da una delle due ridotte porte situate sulla parete di fondo, si viene accolti da uno spazio avvolto da una decorazione totalizzante. Di fronte, si staglia il grande altare progettato e realizzato da Giulio De Ferrari, secondo il contratto rogato nel 1653, che ospita la più tarda Madonna Regina di Genova, scolpita da Francesco Maria Schiaffino nel 1729. 



Gli elementi decorativi, i cartigli, le sculture e le erme realizzate in marmo e stucco nella struttura d’altare, sono puntualmente evocate anche nelle pitture, denunciando un'evidente relazione progettuale tra le due imprese coeve e con grande probabilità, la leadership del Carlone nell'impresa. Carlone infatti aveva una notevole esperienza che doveva aver ereditato, in campo scultoreo e architettonico, dal padre Taddeo, uno dei principali interpreti della tarda maniera in ambiente ligure. 



Di grande impatto sono le monumentali e opulente colonne in marmo rosso di Francia, sapientemente reiterate nella finzione dei trompe l’oeil del Carlone, anche sui lati della cappella, a inquadrare le scene raffigurate al di là di illusorie logge che dilatano lo spazio. Guardando l’altare, sulla destra, attraversato l’illusorio loggiato che prolunga la ricca decorazione pavimentale di marmi policromi ad intarsio, lo spettatore è catapultato, quasi in prima linea, nell’Assedio di Gerusalemme, vittoriosamente condotto per Goffredo di Buglione dal genovese Guglielmo Embriaco nel 1099. L'assedio, aveva risolto la difficile situazione dell’esercito occidentale durante la prima crociata, condotta con azzardo da un audace guerriero e stratega quale era Embriaco, un'impresa che valse ai genovesi privilegi e riconoscimenti sia in Terra Santa, sia in patria, mentre Guglielmo diventò una sorta di allegoria del valore della città stessa 
Sulla parete di fronte, al di là di uno spazio illusorio in tutto e per tutto analogo, il loggiato s’apre su un pontile, a cui due nerboruti schiavi stanno facendo accostare una ricca scialuppa che porta un riconoscibile Guglielmo Embriaco dinanzi all’arcivescovo di Genova. Il condottiero tende all’alto prelato una cassetta che contiene null’altro che le ceneri di San Giovanni Battista, predate a Cesarea dal contingente genovese nel 1101, di ritorno dalla spedizione a Gerusalemme. 
Sulla terza parete, dove le porte immettono nella cappella, si trova un grande quadro riportato, circondato da una illusoria e spessa cornice dorata. Al centro, Cristoforo Colombo vestito con abiti moderni, gli occhi rivolti significativamente al cielo, pianta una grande croce sul suolo appena raggiunto dell’isola di San Salvador, nelle Indie Occidentali.



Gli elementi fondanti della relazione dell’ardire dei genovesi con la sfera del divino sono sostanzialmente tutti evocati, ma s’aggiungono, ai lati dell’altare stesso, sotto la reale loggetta creata dalle colonne corinzie, a destra, il Massacro dei Giustiniani di Chio per mano dei Turchi Ottomani (1566) e a sinistra, la Creazione dell’Ordine tridentino dei Chierici Regolari Minori da parte del padre genovese Giovanni Agostino Adorno (1588). 
Ai lati delle scene dipinte, si trovano finte sculture in bronzo dei primi evangelizzatori della Liguria, come Nazario e Celso o lo stesso San Barnaba, al di sopra dei quali, in quattro cartouches, sono effigiati altrettanti episodi fondanti per la chiesa genovese: la Consacrazione della Cattedrale di San Lorenzo (1118), il momento in cui Papa Innocenzo II concede la dignità arcivescovile alla città di Genova (1133), la Donazione alla città di Genova di un frammento della Vera Croce da parte della famiglia De Fornari (1202) e la Donazione del Volto Santo di Edessa da parte di Giovanni V Paleologo al Doge Leonardo Montalto, avvenuta nel 1362. 
L’architettura illusoria riconnette i finti loggiati a una complessa teoria di cariatidi che ospitano, assisi su tronetti, vescovi e illustri personalità del clero ligure, a cui sovrintendono, con la sola esclusione del lato occupato dall’altare, tre illustri monache genovesi: Santa Caterina Fieschi Adorno, la venerabile Battista Vernazza e la Beata Maria Vittoria De Fornari Strata. 



Alcuni meravigliosi gruppi di cantori e musici angelici, affacciati e seduti in aeree loggette decorate da illusorie volte affrescate con storie dell’Antico Testamento legate a Mosè e ad Abramo, conducono al grande spazio centrale della volta, dove siede Maria su un trono di nubi, attorniata dai quattro santi protettori della città di Genova: San Giorgio, San Lorenzo, San Bernardo di Chiaravalle e San Giovanni Battista. 



Nella volta, il Carlone rinuncia a qualsiasi tipo di illusionismo prospettico e presenta la scena come un grande quadro riportato, con le figure fedelmente devote allo spazio loro dedicato dall’artista, all’interno della finta architettura. Senza dubbio l’esigenza di una forte chiarezza espositiva nella gestione dello spazio narrativo della cappella, che ha l’arduo compito comunicativo di mettere assieme episodi legati alla gloria civica ed elementi relativi all’ambito devozionale, spinse l’artista, sotto la guida di una committenza con le idee ben chiare, a corredare ogni scena e ogni figura da apposita didascalia per permetterne agevolmente l’identificazione. Per la stessa ragione, anche gran parte delle scelte iconografiche per la raffigurazione dei santi presenti sono tratte da testi di una certa fama, pubblicati all’epoca in area genovese. Questo bisogno di comprensibilità, risalta anche nell’ortodossia iconografica di certe immagini, irrigidite in composizioni piuttosto statiche, in particolare nella volta. Tuttavia, la freschezza narrativa e cromatica del Carlone, trionfa negli episodi laterali e nei cori angelici, squisita allegoria del coro reale che doveva prendere posto nella tribuna della parete di fondo. 



Evidenti sono comunque le tracce esecutive lasciate dalla ditta del Carlone, ben leggibili nei frequentissimi riporti da cartone visibili nelle incisioni sull’intonaco a delineare i contorni delle figure.

Tale peculiarità, sarà praticata anche dal figlio di Giovanni Battista Carlone, Giovanni Andrea, attivo in cantieri di sensazionale importanza come la Chiesa del Gesù di Roma e la Sala Verde di Palazzo Altieri, a fianco di personalità quali Carlo Maratta e Giovanni Battista Gaulli 

Le incisioni appaiono assai più insistite e frequenti, tanto da far pensare a una esecuzione affidata ai lavoranti e controllata da Carlone, nei riquadri della Presa di Gerusalemme e in quello di Colombo pianta la croce sulla spiaggia di San Salvador, mentre sono più radi nella parete di sinistra, raffigurante Guglielmo Embriaco porta a Genova le ceneri del Battista. In quest’ultima scena, laddove le figure sembrano tracciate senza l’ausilio della traccia del cartone, le pennellate, pur trattandosi d’una esecuzione ad affresco, si fanno vibranti e cariche di materia pittorica, tanto da risultare ancora oggi rilevate e materiche, quasi che si trattasse di un dipinto ad olio.

Una traccia ulteriore delle novità introdotte dal Carlone nella Cappella del Doge è relativa all’infrangere definitivamente la barriera tra lo spazio virtuale dell’opera e spazio fisico dell’osservatore

A ben guardare infatti, almeno quattro puttini a monocromo, dipinti a fingere altrettante sculture omologhe a quelle realizzate in marmo sugli acroteri dell’altare, hanno reali gambe modellate in stucco, che fuoriescono decisamente dalla parete andando a dare corpo all’illusione pittorica. 
Ad oggi, se si vuole escludere l’episodico tentativo di Lazzaro Tavarone con l’arco dell’Indio nell’affresco colombiano di palazzo Belimbau (1610), questo è sicuramente il primo tentativo riscontrabile a Genova di mettere insieme la scultura e la pittura illusoria. Una premiere che giunge a dieci anni dall’exploit romano della Cappella Cornaro, dove la regia di Gianlorenzo Bernini coordina le ricerche innovative di Guidobaldo Abbatini, nella volta che sovrasta il gruppo scultoreo dell’Estasi di Santa Teresa. Una conferma della ricezione, per nulla tardiva, degli stilemi romani anche in un centro che, come Genova, stava tornando a svolgere ruoli più periferici, ma che non per questo era divenuto incapace di raccogliere le cifre innovative suggerite dai più aggiornati linguaggi che il mondo delle arti proponeva nelle piazze di maggior grido.

Oggi, la Direttrice di Palazzo Ducale Serena Bertolucci, ha voluto recuperare la Cappella Dogale all’uso, procedendo con un prezioso restauro all’altare e alla Madonna Regina di Francesco Maria Schiaffino. 

Ideazione, contenuti e presentazione video Giacomo Montanari (storico dell'arte)
Cura dei testi Pietro Toso
Riprese, regia e montaggio Lorenzo Zeppa
Fotografie Fabio Bussalino