I candidati a Miglior film: "Freaks out"

La poetica del reietto: da Gabriele Mainetti a Cinico TV

Presentato all’ultimo festival di Venezia, Freaks Out è il secondo lungometraggio di Gabriele Mainetti dopo il folgorante Lo chiamavano Jeeg Robot del 2015. Mainetti, già vincitore del Nastro d’Argento come miglior corto con Tiger boy nel 2013, ha sorpreso il pubblico con un film di grande produzione che è candidato a ben dieci Nastri d’Argento.

Ambientato nel 1943,  in una Roma occupata dai nazisti, Freaks out racconta la storia di uno strampalato circo, all’interno del quale si esibiscono delle strane creature (i “freaks” del titolo), ragazzi e ragazze dotate di  diversità molto speciali (di fatto, dei superpoteri), che li rendono agli occhi della società dei veri e propri “mostri”.

Sono anormali, inquietanti, a tratti spaventosi, perché così diversi dai canoni accettabili. E per poter vivere sono costretti a giocare quel ruolo di “fenomeno da baraccone”, che rappresenta la loro unica speranza. 

Molti anni prima di Mainetti, più precisamente nel 1932, Tod Browning realizzò Freaks, capolavoro disturbante e pietra miliare del cinema, in cui gli interpreti non erano attori ma persone che veramente lavoravano nel circo come attrazioni. E che dimostravano, attraverso quella storia, che a volte i veri mostri sono le persone cosiddette “normali”.
Il titolo del film di Mainetti è ovviamente ispirato al film di Browning (e, forse, anche all’estetica dei “freaks” della fotografa Diane Arbus), ma va oltre. “Freaking out”, infatti, in inglese significa “impazzire”, e pazzo è il mondo che i nostri protagonisti troveranno fuori le luride tende del Circo Mezzapiotta. Un mondo delirante, devastato dagli abomini del secondo conflitto mondiale.

Ma chi sono questi “freaks”? Sono gli esclusi, i respinti, i reietti, i “mostri”, i rifiutati, costretti dal loro aspetto o dalla loro non conformità mentale, o anche solo dalla loro condizione sociale, a vivere ai margini del cosiddetto mondo civile.

La letteratura, il cinema, l’arte in generale spesso si è fatta paladina di questa diversità, intravedendo in questa non-riconciliazione una poetica della libertà più autentica, contrapposta ad un conformismo crudele. Oltre a Freaks out, anche in Italia abbiamo avuto chi, non senza una buona dose di coraggio, ha voluto raccontare queste storie. Uno, sicuramente, è stato Marco Ferreri: basti pensare allo spietato La Donna Scimmia del 1964.

Ma certamente un posto d’onore lo occupa uno straordinario esempio di televisione: Cinico TV di Daniele Ciprì e Franco Maresco. Nata nei primi anni novanta su Rai Tre, Cinico TV rappresenta ancora oggi qualcosa di assolutamente anomalo, spiazzante. Carmelo Bene la definì “un calcio in culo al linguaggio e alla comunicazione”.

Girata in un rigoroso bianco e nero, è ambientata in una Palermo squallida e desolata, nella quale dei personaggi seminudi, sporchi, sgradevoli al limite dell’inaccettabile, si muovono su cumuli di rifiuti nel degrado urbano e umano. 

Le puntate (ve ne proponiamo una, ma le trovate tutte su RaiPlay) erano molto brevi, solo pochi minuti, e inizialmente andavano in onda più o meno all’ora di cena. Dai rassicuranti schermi televisivi, irrompeva nelle case questa galleria di personaggi disgustosi (leggere: difformi dal gusto corrente) e disturbanti. Un vero schiaffo in faccia agli spettatori italiani, abituati a ben altro. Ma, forse, non si fa anche così la rivoluzione?