Salinger sconosciuto
Tre racconti inediti dello scrittore americano
A distanza di più di settant’anni dalla stesura, Il Saggiatore ha pubblicato I giovani, tre racconti inediti in Italia di J.D. Salinger, scrittore di culto e autore del celeberrimo Il giovane Holden, il cui mito per decenni è stato alimentato dal suo ritiro a vita strettamente privata nel 1965.
Quasi disperatamente Salinger cercò di pubblicare i suoi primi racconti sul New Yorker, che riteneva l’approdo più prestigioso nel mondo letterario americano, ma non vi riuscì per diversi anni. Nel 1940 la rivista Story, a bassa tiratura ma stimata e influente, è la prima a pubblicare il nome J.D. Salinger e il racconto I giovani, scorcio illuminante della cocktail society di New York, in cui, a una festa tra adolescenti, si cerca di mitigare la solitudine con scotch whisky e chiacchiere. Va’ da Eddie compare invece per la prima volta su un giornale universitario del Kansas; pervade il racconto una minaccia sottile, che si fa sempre più invadente man mano che il protagonista maschile rafforza la sua pressione su una giovane donna dai capelli rossi perché incontri un uomo di nome Eddie. Infine, quattro anni più tardi, al termine della sua esperienza bellica, Salinger pubblica, ancora su Story, Una volta alla settimana, che ritrae un giovane soldato nel tentativo di raccontare a una zia anziana e non più lucida che sta partendo per il fronte. Una metafora amara di come una famiglia debba o possa prepararsi alla morte in tempo di guerra.
Nella postfazione al volumetto Giorgio Vasta spiega il suo approccio alla poetica salingeriana. Ecco un estratto per gentile concessione dell'editore Il Saggiatore.
Quando leggo Salinger, indipendentemente dalla pagina che sto leggendo, da quelle che di volta in volta sono le peculiarità della scena narrata, dal fatto che si descrivano le vicende di Holden Caulfield, di Seymour, Buddy o Franny Glass, e al di là di trovarsi a New York, in Florida oppure a Hapworth Lake nel Maine, dopo poco mi scopro a visualizzare un’immagine, qualcosa che con scene personaggi luoghi non c’entra nulla, nel senso che non corrisponde alla loro letteralità, ma che allo stesso tempo ne è una conseguenza, proiezione e sedimento, un nucleo ricorrente che di colpo, leggendo, assume una forma fisica.
Una radura: arbusti che sbucano neri dal suolo, la terra umida; al centro, un mucchio di foglie secche che somiglia a un omino vegetale. Credo che quanto sto descrivendo sia un fenomeno che appartiene alla fisiologia della lettura: oltre a visualizzare ciò che la narrazione poco a poco fa accadere, leggendo si genera un’ulteriore visione trasversale alle visualizzazioni specifiche, una specie di loro denominatore comune, una sostanza affettiva che scaturisce dal narrato e che può assumere morfologie diverse: nel mio caso, leggendo Salinger, di una radura.
Questa visione, fra l’altro, non è statica. Mentre la lettura procede, un uomo – non so chi, lo vedo di spalle – penetra nella radura e con un rastrello scuote il mucchio di foglie, le sparpaglia, le dispone ordinatamente a ricoprire lo spazio concentrandosi sui piccoli crateri da cui affiorano gli arbusti, così che neppure un centimetro quadrato di terreno resti nudo. Appena ha terminato – e a quel punto è terminata anche la lettura – si ferma, si guarda intorno e poi, sempre dandomi le spalle, va via, e io me ne resto da solo a contemplare la radura, gli arbusti neri, lo strato di foglie che ricopre tutto, il loro moto inerte e sottile, il fruscio leggero che sembra un respiro, avvertendo un senso di sgomento e un’incontenibile leggerezza, qualcosa di attivo, di fertile e di febbrile.
Mi sono interrogato su questa visione. Ho riletto Il giovane Holden e i Nove racconti, ho ricomposto la storia della famiglia Glass attraverso Alzate l’architrave, carpentieri, Seymour. Introduzione e Franny e Zooey, ho recuperato e letto Hapworth 16, 1924. Mi sono un po’ chiarito le idee, ma a rendere davvero nitido il nesso tra la scrittura di Salinger e la visione della radura sono stati i tre racconti de I giovani.
In ognuno, i personaggi non fanno altro che conversare. Nel primo, quello eponimo, la conversazione ha luogo durante un party, più esattamente durante il tentativo tragicomico di innescare un flirt tramite uno small talk che fa risaltare l’ostinazione disperata di Edna, la sua euforia derelitta mentre cerca di mantenere vivo il contatto con Bobby; in Va’ da Eddie, il dialogo coinvolge fratello e sorella nella camera da letto di lei, Helen che galleggia tra bagno specchio spazzola e limetta, Bobby che prova a modificarne l’orbita sollecitandola invano ad andarsi a cercare un posto da ballerina – il tono secco di lui al quale corrisponde la voce infantile di lei, il bamboleggiare come strumento per permanere a tempo indeterminato nella stasi; e infine la conversazione innerva le due scene di Una volta alla settimana, dove Dickie preparandosi a partire per il fronte – è il 1944 – discute prima con sua moglie Virginia – chiosatrice di gran vaglia che alterna postille a sbadigli – e poi con la zia Rena, memoria puntuale e svagata delle origini del nipote – le scarpe da ginnastica sporche, la collezione di francobolli, il cartello SI PREGA DI NON DISTURBARE appeso alla porta della camera; ma soprattutto, anche lei, una notevole inclinazione esclamativa.
Perché per i personaggi di Salinger conversare significa più di ogni altra cosa accentuare, caricare, ribadire. La lingua, nella sua nuda referenzialità, è troppo fragile e inadeguata; inoltre l’interlocutore sta sempre per svanire e dunque per trattenerlo (ovvero per riuscire a percepirlo, ovvero per farsi da lui percepire) è necessario che le parole si trascendano marcando e alludendo, in una sistematica esondazione del senso (l’«esse est percipi» berkeleyano è per questi personaggi angoscia e movente).
Giorgio Vasta
Quasi disperatamente Salinger cercò di pubblicare i suoi primi racconti sul New Yorker, che riteneva l’approdo più prestigioso nel mondo letterario americano, ma non vi riuscì per diversi anni. Nel 1940 la rivista Story, a bassa tiratura ma stimata e influente, è la prima a pubblicare il nome J.D. Salinger e il racconto I giovani, scorcio illuminante della cocktail society di New York, in cui, a una festa tra adolescenti, si cerca di mitigare la solitudine con scotch whisky e chiacchiere. Va’ da Eddie compare invece per la prima volta su un giornale universitario del Kansas; pervade il racconto una minaccia sottile, che si fa sempre più invadente man mano che il protagonista maschile rafforza la sua pressione su una giovane donna dai capelli rossi perché incontri un uomo di nome Eddie. Infine, quattro anni più tardi, al termine della sua esperienza bellica, Salinger pubblica, ancora su Story, Una volta alla settimana, che ritrae un giovane soldato nel tentativo di raccontare a una zia anziana e non più lucida che sta partendo per il fronte. Una metafora amara di come una famiglia debba o possa prepararsi alla morte in tempo di guerra.
Nella postfazione al volumetto Giorgio Vasta spiega il suo approccio alla poetica salingeriana. Ecco un estratto per gentile concessione dell'editore Il Saggiatore.
Quando leggo Salinger, indipendentemente dalla pagina che sto leggendo, da quelle che di volta in volta sono le peculiarità della scena narrata, dal fatto che si descrivano le vicende di Holden Caulfield, di Seymour, Buddy o Franny Glass, e al di là di trovarsi a New York, in Florida oppure a Hapworth Lake nel Maine, dopo poco mi scopro a visualizzare un’immagine, qualcosa che con scene personaggi luoghi non c’entra nulla, nel senso che non corrisponde alla loro letteralità, ma che allo stesso tempo ne è una conseguenza, proiezione e sedimento, un nucleo ricorrente che di colpo, leggendo, assume una forma fisica.
Una radura: arbusti che sbucano neri dal suolo, la terra umida; al centro, un mucchio di foglie secche che somiglia a un omino vegetale. Credo che quanto sto descrivendo sia un fenomeno che appartiene alla fisiologia della lettura: oltre a visualizzare ciò che la narrazione poco a poco fa accadere, leggendo si genera un’ulteriore visione trasversale alle visualizzazioni specifiche, una specie di loro denominatore comune, una sostanza affettiva che scaturisce dal narrato e che può assumere morfologie diverse: nel mio caso, leggendo Salinger, di una radura.
Questa visione, fra l’altro, non è statica. Mentre la lettura procede, un uomo – non so chi, lo vedo di spalle – penetra nella radura e con un rastrello scuote il mucchio di foglie, le sparpaglia, le dispone ordinatamente a ricoprire lo spazio concentrandosi sui piccoli crateri da cui affiorano gli arbusti, così che neppure un centimetro quadrato di terreno resti nudo. Appena ha terminato – e a quel punto è terminata anche la lettura – si ferma, si guarda intorno e poi, sempre dandomi le spalle, va via, e io me ne resto da solo a contemplare la radura, gli arbusti neri, lo strato di foglie che ricopre tutto, il loro moto inerte e sottile, il fruscio leggero che sembra un respiro, avvertendo un senso di sgomento e un’incontenibile leggerezza, qualcosa di attivo, di fertile e di febbrile.
Mi sono interrogato su questa visione. Ho riletto Il giovane Holden e i Nove racconti, ho ricomposto la storia della famiglia Glass attraverso Alzate l’architrave, carpentieri, Seymour. Introduzione e Franny e Zooey, ho recuperato e letto Hapworth 16, 1924. Mi sono un po’ chiarito le idee, ma a rendere davvero nitido il nesso tra la scrittura di Salinger e la visione della radura sono stati i tre racconti de I giovani.
In ognuno, i personaggi non fanno altro che conversare. Nel primo, quello eponimo, la conversazione ha luogo durante un party, più esattamente durante il tentativo tragicomico di innescare un flirt tramite uno small talk che fa risaltare l’ostinazione disperata di Edna, la sua euforia derelitta mentre cerca di mantenere vivo il contatto con Bobby; in Va’ da Eddie, il dialogo coinvolge fratello e sorella nella camera da letto di lei, Helen che galleggia tra bagno specchio spazzola e limetta, Bobby che prova a modificarne l’orbita sollecitandola invano ad andarsi a cercare un posto da ballerina – il tono secco di lui al quale corrisponde la voce infantile di lei, il bamboleggiare come strumento per permanere a tempo indeterminato nella stasi; e infine la conversazione innerva le due scene di Una volta alla settimana, dove Dickie preparandosi a partire per il fronte – è il 1944 – discute prima con sua moglie Virginia – chiosatrice di gran vaglia che alterna postille a sbadigli – e poi con la zia Rena, memoria puntuale e svagata delle origini del nipote – le scarpe da ginnastica sporche, la collezione di francobolli, il cartello SI PREGA DI NON DISTURBARE appeso alla porta della camera; ma soprattutto, anche lei, una notevole inclinazione esclamativa.
Perché per i personaggi di Salinger conversare significa più di ogni altra cosa accentuare, caricare, ribadire. La lingua, nella sua nuda referenzialità, è troppo fragile e inadeguata; inoltre l’interlocutore sta sempre per svanire e dunque per trattenerlo (ovvero per riuscire a percepirlo, ovvero per farsi da lui percepire) è necessario che le parole si trascendano marcando e alludendo, in una sistematica esondazione del senso (l’«esse est percipi» berkeleyano è per questi personaggi angoscia e movente).
Giorgio Vasta