Sylvia Plath: una vita difficile

Sylvia Plath: una vita difficile

Intervista di Giancarlo Susanna a Stefania Caracci

Sylvia Plath: una vita difficile
Intervista a Stefania Caracci, studiosa ed esperta di Sylvia Plath, che con due libri – Sylvia e Sylvia Plath: i giorni del suicidio – ripercorre la drammatica esistenza della poetessa americana.

Spesso considerata un esercizio “minore” e oltretutto confinato nell'ambito della letteratura di genere, la biografia presenta a chi la affronta una serie di difficoltà non indifferenti. Bisogna tentare di catturare i lettori con uno stile “da romanzo”, ma al tempo stesso è indispensabile restare ancorati ai fatti e alle circostanze reali. In questo senso, Sylvia, il libro che la professoressa Stefania Caracci ha dedicato a Sylvia Plath è veramente esemplare: si legge con grande facilità, ma questo non va mai a scapito della completezza delle informazioni che lo arricchiscono. 

Ci può raccontare qualcosa di questa passione per la Plath?
Da ragazza sono andata in Inghilterra per migliorare la lingua, come fanno un po’ tutti ormai. Al college di Londra in cui mi trovavo c’erano spesso dei reading, con ospiti di chiara fama. Tra questi: Ted Hughes. Personalmente ne sapevo pochissimo: ero molto giovane e molto amante di tutto, e non soltanto dello studio... Ebbene quest'uomo mi affascinò da subito, non tanto per la sua bellezza, ma per la distanza estrema che metteva fra sé e gli altri. Sentii dire che era il marito di Sylvia Plath. Cominciai a leggere qualcosa della poetessa americana prendendo i libri dalla biblioteca del college. Mi capitò fra le mani Lady Lazarus. Avevo appena vent'anni e... lì è scattato tutto. Tornata a Roma, dissi al professore che mi seguiva per la tesi che avrei voluto farla su Sylvia Plath. Lui inizialmente non voleva, anche perché diceva che non c'era materiale critico a cui riferirsi. Finii con lo scrivere la tesi di mio pugno: me la sono inventata e oggi fa quasi ridere... per quanto era puerile. Ci voleva ben altro per capire la Plath! Però, da allora, non l'ho più abbandonata.

Ho letto tutto quello che è stato pubblicato in Inghilterra e in America. Sono andata a visitare i luoghi in cui è vissuta... Ho anche dovuto aspettare una maturità che allora non avevo, perché per affrontare la Plath ci vuole tanta forza d'animo: per entrare dentro di lei e riuscirne.

Faccio parte della Società Italiana delle Letterate e ho conosciuto tante colleghe che si dicono affascinate dalla Plath, ma io non l’ho mai più lasciata. Amelia Rosselli è stata la più grande traduttrice di Sylvia Plath, le poche poesie tradotte da lei sono strepitose... E anche Amelia si è uccisa l’11 febbraio, come la Plath. Il più delle volte, chi si interessa a lei viene preso da un vortice di disperazione. Personalmente, sopravvivo in maniera egregia, forse perché sono passati tanti anni, perché l’ho digerita... Nell’ultimo libro ho voluto tirar fuori la sua parte più vitale, quella meno mortifera, perché c’era ed era pure molto forte.

È vero, c’è una grande vitalità, una grande energia, nella sua poesia.
Sì. È poco femminile, se per femminile s’intende una poesia che parla solo dei buoni sentimenti. Lei si sentiva Dachau… L’essere uomo o donna non aveva alcuna importanza. E non era neppure la femminista che dipingono... Era piuttosto una femminista ante litteram, per conto suo.

In un certo periodo, però, è stata quasi “usata” come simbolo. Era un’icona. Molti se ne sono serviti anche per attaccare Ted Hughes.
Quando ho deciso di scrivere il primo libro su di lei, mi sono messa in contatto con Hughes, che fino a quel momento aveva sempre rifiutato qualsiasi conversazione con i biografi ufficiali inglesi o americani. A me, forse perché sono italiana e quindi fuori dai giochi, ha invece scritto una lettera meravigliosa, in cui racconta tutta la sua angoscia... La lettera è del 1996. Lui è morto poco dopo, a 67 anni, e non aveva ancora digerito quel che era successo. “Le femministe mi hanno crocifisso”: sono queste le sue testuali parole.

Sylvia non avrebbe voluto nessuna etichetta, perché le etichette le stavano strette, però si comportava come una donna che voleva avere tutto.

Si firmava così nei diari: “La bambina che vuole essere Dio”. E questo è un progetto destinato a morire per antonomasia. Direi quasi che porta iella.

A parte il fascino un po’ discutibile del “poeta che muore giovane”, Sylvia Plath ha una presenza costante nella cultura di lingua inglese, e non solo. Come si può spiegare l’influenza dei suoi versi sui lettori?
Dal punto di vista femminile, credo che Sylvia Plath sia un personaggio che ha percorso una strada difficile, ostica: una strada che l’ha portata al suicidio. Alle ragazze di oggi, alle donne di oggi – e non soltanto a loro – può insegnare ad affrontare i problemi di faccia, come faceva lei. Prima che le cose cambiassero… Ha avuto il coraggio di dire “odio mia madre”, è andata dallo psicanalista, ha avuto la forza di mandare via il marito... Tutto sommato, a un certo punto, è lei che non ha voluto più. Ha avuto la capacità di affrontare i suoi problemi e nella poesia si vede quanto questi problemi abbiano scavato dentro di lei e con quanta energia li abbia affrontati. Per una serie di circostanze è morta, ma poteva anche non morire. Alvarez, il critico, dice che il suo gesto rappresenta un ultimo grido lacerante. Non è detto che volesse morire. Che volesse aiuto invece è certo. Oggi farebbe bene a tutti vedere una persona che con grande coraggio affronta realtà difficili, di un mondo in cambiamento.

Come poetessa è grandiosa, perché la sua è una poesia libera. Dice quello che le viene in mente, non le importa se è sconveniente dire che il bambino fa la cacca, sporca la cucina ed è un rompiballe... perché lo è! Quando mai qualcuno si è permesso di adombrare in questo modo la maternità? Lei ha avuto il coraggio di dire tutte quelle cose che non si sono mai dette; e questo coraggio lo ha pagato sulla sua pelle. Ci vuole una grande sensibilità per buttare fuori il buio che c’è in noi.

Ce ne vuole altrettanta per amare la sua poesia ed entrare nella sua vita...
Prima di scrivere quest’ultimo libro – Sylvia – e il precedente – I giorni del suicidio – ho parlato con molti psichiatri. Ne I giorni del suicidio ho addirittura percorso in prima persona la sua ultima notte. Sylvia era una borderline, aveva episodi di depressione, però non era al di là del “border”, era al di qua. Quando scriveva in quel meraviglioso inverno perfido, ma per lei di grandissima creatività – tutte le poesie più belle sono state scritte in quel periodo, tra il ’61 e il ’63 – lei era sola, ma integra nella propria grandezza. Una grandezza che sconvolge, alla quale lei per prima non ha retto. È come se si fosse, a un certo punto, sradicata. Per me non c’è poesia, scritta da una donna, che sia così titanica. Sylvia Plath è straripante.

Una band inglese – i Blue Aeroplanes – guidata da Gerard Langley, un poeta-cantante di grande impatto, ha messo in musica “The Applicant” e sembra che i versi di questa poesia siano in assoluta sintonia con le chitarre elettriche.
Non m’intendo molto di musica, ma la poesia della Plath ha una musicalità particolare. Almeno per quello che riesco a capire come amante della poesia.

Non è facile renderla nelle traduzioni, vero?
In Italia, Sylvia Plath è stata tradotta malissimo. Prima o poi mi uccideranno, perché ogni volta che faccio una presentazione del mio libro lo dico sempre.

La maggior parte delle traduzioni in commercio sono di Giovanni Giudici, il quale, con tutto il rispetto, credo abbia una mentalità assolutamente lontana da quella della Plath... Sarà un grandioso poeta, ma la smussa, la dolcifica… credo che lei gli avrebbe dato un pugno! Come dicevo, le migliori sono quelle di Amelia Rosselli, in cui si sentono la comprensione e la volontà di dare.

Anche il “Meridiano” di Mondadori a lei dedicato è pieno di errori. Ve ne dico uno, che cito spesso e volentieri: c’è una poesia che si chiama “Child”, risalente sempre a quel fatidico inverno, che lei dedica a suo figlio Nick. Nei versi compare, tra le altre cose, una “indian pipe”, uno dei primi nomi di fiori che il bambino ancora piccolissimo balbetta. Nel “Meridiano” l’espressione viene tradotta con “pipetta indiana”. Insospettita, ho chiesto ad alcuni botanici: ma esiste un fiore che si chiama pipetta indiana? Senza contare, poi, che la Plath non avrebbe mai usato un diminutivo. Così ho scoperto che l’indian pipe è un tipo di campanula parassitaria, che nasce dalle radici putrescenti degli alberi del New England. Pensate dov’era andata a parare! A un fiore che mangia le radici morenti di una pianta. Sylvia Plath è difficilissima da tradurre, perché bisogna andare a pescare di ogni cosa l’esatto riferimento. Comunque campanula è sempre meglio di pipetta indiana! E questo era solo per dirne una, perché ce ne sarebbero veramente tante altre. Anche il romanzo, The Bell Jar, dovrebbe essere ritradotto. Io ne ho ritradotti per mio gusto tre capitoli, che intendo proporre alla e/o o alla Mondadori. Al momento, l’unica versione esistente è del 1967 e ci sono delle ingenuità che oggi non sono più ammissibili. E pensare che è un libro non meno bello del Giovane Holden. In America, quando uscì, la gente non ne voleva sapere, perché era troppo sconveniente per una giovane ragazza. Il fatto della pipetta indiana è rappresentativo del rapporto tra la Plath e le immagini della sua poesia. Per capirne il senso, devi conoscere bene la sua vita... Qualche volta mi hanno chiesto in che rapporto stanno la vita e la poesia. Direi che sono sovrapposte. La Plath dice:

La vita non vale la pena di essere vissuta se non la si può riportare in scrittura.

Quindi la vita e la scrittura sono una sola cosa. Non tutti gli scrittori hanno questa convinzione e non tutti hanno il coraggio di dirlo. La Plath a un certo punto elimina i pudori, toglie tutte le sovrastrutture e dice “la vita non vale la pena di essere vissuta”. Non a caso lei voleva essere Lady Lazarus, non a caso lei ha ucciso la donna e ha lasciato la poetessa. Non a caso è accaduto esattamente ciò che lei voleva. E questo non è poco.

In fondo il suo libro è un po’ come la restituzione di un debito. È ricchissimo d’informazioni, ma è animato dalla passione e si legge come fosse un romanzo.
È quello che credo di dare anche quando ne parlo. È una cosa che è maturata, in me, per tanti anni ed è stata una gioia inenarrabile poter scrivere questo libro. [Indica la pagina di un fascicolo con le stesure originali di alcune poesie e poi la copertina del libro, ndr] Questa è “Stinks”, la poesia che compare in copertina. Mi sono detta: la scrittura è la vita e allora mettiamoci la scrittura.

Ha in mente di tornare sull’argomento anche se il progetto di nuove traduzioni non dovesse andare in porto?
Ho già scritto altre cose e non la perdo di vista, perché Sylvia Plath mi ha dato il coraggio di affrontare i miei problemi. Va letta proprio perché ti dà coraggio.

È una delle funzioni dell'arte e della poesia…

Kafka diceva che un romanzo è buono se riesce a spaccare il ghiaccio che abbiamo dentro. Quando il ghiaccio si è spaccato, siamo più ricettivi a tutto. Una grande poetessa come Sylvia Plath riesce a far diventare più largo il respiro, a farti entrare dentro più cose e, alla fine, vedi anche meglio te stesso.


Intervista di Giancarlo Susanna