Ilaria Rossetti, Le cose da salvare

Ilaria Rossetti, Le cose da salvare

Strategie per fronteggiare la perdita

Ilaria Rossetti, Le cose da salvare
In seguito al crollo di un ponte, tutti gli abitanti di un edificio lasciano le loro case. Tutti, tranne Gabriele  Tempesta, un ex professore di matematica e scienze delle medie che vive da solo nell’abitazione ereditata dai genitori. Gabriele sta per scappare come gli altri, ma poi si sofferma a scegliere gli oggetti da portare via e infine decide che non se ne andrà. A un anno dalla caduta del ponte, Petra, una giovane giornalista, che è l’io narrante di Le cose da salvare di Ilaria Rossetti (Neri Pozza), viene incaricata dal suo direttore di scrivere un ritratto dell’uomo. Tra Gabriele e Petra, che è in un momento difficile perché le è appena morta la madre e ha lasciato un promettente lavoro a Londra per poterle stare vicino negli ultimi giorni, s’istaura un rapporto di grande confidenza. Petra scopre anche che nel palazzo di Gabriele si sono insediate due donne eritree che dividono con il professore il cibo portato dai ragazzini del quartiere. Nel frattempo Alfio, il padre di Petra, riceve la visita di Vanda, una settantenne che aveva amato da giovane e che gli è rimasta nel cuore. Petra soffre all’idea che Vanda voglia rimpiazzare sua madre; alla fine scopre che dietro la presenza di questa donna si nasconde un estremo gesto d’amore. 

La casa dove ha trascorso la sua vita, la casa che lo ha visto nascere, seppellire i suoi genitori, sposarsi e restare solo, ha tremato fino alle fondamenta, là dove il dolore si rivela il cuore onesto della terra. Gabriele sa che deve andarsene, sa che quel palazzo potrebbe crollargli addosso da un momento all’altro, ma non riesce a decidere. Non riesce a decidere quali sono le cose da salvare.


Ilaria Rossetti è nata nel 1987. Ha vinto il Premio Campiello Giovani 2007 con il racconto La leggerezza del rumore (Marsilio Editore). Con Giulio Perrone Editore ha pubblicato Tu che te ne andrai ovunque (2009) e Happy Italy (2011). Con Le cose da salvare ha vinto la quarta edizione del Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza 2019.

Di seguito l'intervista di Rai Letteratura.
In Le cose da salvare s’intrecciano due storie: quella di Gabriele Maestrale che rifiuta di lasciare la sua casa dopo il crollo del ponte quella della protagonista Petra che sta elaborando il lutto per la morte della madre. Si può dire che il suo è un romanzo sulla perdita e su come ci opponiamo a essa?
Di certo la perdita è al centro del romanzo. Possiede una dimensione individuale per Gabriele e Petra – e riguarda genitori, matrimoni, oggetti, radici, identità – e una dimensione collettiva, certificata da un evento traumatico come il crollo di un ponte nel cuore di una città. Alla perdita, esiste una risposta affettiva e politica, che include due atteggiamenti molto diversi: l’opporsi ad essa alzando tutte le difese possibili e l’elaborazione, l’accettazione. Petra bambina ricorda di aver creduto che tutte le cose andrebbero conservate, salvate, anche se non riprenderanno mai a funzionare. Petra adulta ha capito che non si può fare. A questo punto sente anche lei la necessità  di compilare un inventario pratico ed emotivo delle sue cose da salvare. Lo smarrimento di Gabriele che, a ponte crollato, dovrebbe decidere in pochi minuti cosa portare via dalla sua casa è speculare a quello di Petra, che invece ha tutto il tempo del mondo, non sta sfuggendo da un palazzo che rischia di crollare ed è anagraficamente più leggera. Ma attraversando la loro storia capiamo che queste differenze non contano. Non costituiscono vantaggi o svantaggi. La perdita riguarda tutti, approfondisce il senso della realtà e il senso del mistero ed è per questo che tanta letteratura continua a raccontarla. Il mio è un romanzo che non la reinventa ma cerca un nuovo modo per rappresentarla.

Com’è nato il personaggio di Gabriele e qual è all’interno del romanzo il valore del suo incontro con le due donne eritree che trovano rifugio nel palazzo?
Gabriele è nato come spesso accade ai personaggi: li si incontra gradualmente, è un percorso di conoscenza reciproca fatto di contorni sfocati, che col tempo si delineano e diventano familiari. Figlio, ex marito, professore, pensionato: è una persona normale, invecchiata con una buona dose di disincanto e solitudine. Gabriele si rifiuta di lasciare la sua casa dopo il crollo del ponte e nel romanzo questa scelta viene letta in molti modi diversi: prima viene visto come un rinunciatario egoista, poi come un resistente, infine come un anziano fragile da mettere in salvo il prima possibile. La narrativa della città in cui vive, quella dei giornali e quella di Petra si mescolano e si contraddicono. Ma Gabriele sa bene chi è e lo capiamo soprattutto leggendo il suo incontro con le donne eritree nel palazzo. Gabriele riesce ad esprimere un senso di comunità e solidarietà anche nell’isolamento. Porta il cognome di un vento perentorio, il Maestrale, eppure è il personaggio più stazionario, l’unico che si muove sempre nel perimetro di un appartamento: ma questo non gli impedisce di innescare un cambiamento profondo e irreversibile, che riguarda tutti i personaggi e la città. Come a voler dire che forse non serve spirare come un vento impazzito, per dare la scossa di una tensione etica (e filosofica) diversa.

Nel secondo filone narrativo del libro si racconta di Alfio, il padre della protagonista e di Vanda, la sua fidanzata dei vent’anni che riappare sulla scena dopo la morte della moglie di lui. C’è qui una riflessione sull’amore, sulla sua capacità di superare i limiti dell’esistenza individuale?
Ho voluto raccontare l’amore che invecchia ed evolve e l’amore che fallisce. Quest’ultimo ogni tanto sfarfalla sul crinale tra passato e presente, ed è esattamente ciò che accade ad Alfio, che pur avendo amato sua moglie tutta la vita non ha mai dimenticato Vanda. Non si tratta di idealizzazione o di un risvolto fiabesco, ma di una riflessione circa la complessità dei nostri rapporti interpersonali e dell’influenza che hanno su tutta la gittata della nostra vita. Penso che quello che Alexander von Humboldt diceva per gli equilibri naturali del mondo valga spesso anche per quelli umani: tutto è interazione e reciprocità, esistono fili invisibili che ci collegano, anche dopo molto tempo, e non possiamo pensare di diventare completamente estranei a qualcuno che abbiamo amato, fosse anche per un riverbero casuale delle nostre azioni.

Le cose da salvare è anche un romanzo sull’Italia di oggi, sui trentenni in bilico tra il desiderio di stare nel loro paese con le persone care e quello di un lavoro gratificante che è più facile trovare altrove e sulle catastrofi che vengono accolte dai politici come occasione per mettersi in mostra? 
Ho prestato a Petra la mia esperienza di vita a Londra. Le migrazioni e i ritorni dei giovani italiani sono un fenomeno complesso, che nella ricerca della gratificazione spesso celano un dolore costante: c’è la sensazione di vivere spezzati in due, di perdersi anni importanti della propria famiglia. E qui non si tratta dello stereotipo dell’italiano mammone, ma della consapevolezza di mancare genitori che invecchiano, nipoti che nascono e congedi improvvisi. Petra vive proprio un’esperienza del genere e si trova a dover scegliere. La sua identità risulta frammentata e per ricomporsi necessita di parametri contemporanei – il dato linguistico e lavorativo non è più rappresentativo, non per la sua (e la mia) generazione. Nel romanzo, d’altra parte, la politica non risulta in grado di fornirli, nemmeno per chi è rimasto: il crollo del ponte finisce per esaltare la confusione dei programmi, il tornaconto personale e la fretta di fornire risposte semplici e immediate anche a fronte di eventi che di semplice e immediato non hanno nulla. Gabriele, dalla politica, viene banalizzato e sfruttato. Lui lo sa e prova a difendersi, spiazzando le aspettative. Alla corsa al consenso, Gabriele risponde puntando i piedi. Mentre scrivevo era lui il personaggio più vigile, mi dava delle potenti gomitate quando rischiavo di raccontare questa storia in modo didascalico. In questi giorni ho ritrovato Javier Cercas e la sua definizione di romanzo più consona che mai: il romanzo è il genere che si prefigge di fare una cosa importantissima, e cioè di proteggere le domande dalle risposte.