Canto 12 - Charta

Purgatorio

Il Comitato della Festa della Bruna sceglie ogni anno, tramite un concorso, il maestro cartapestaio. La preparazione del carro trionfale inizia nel mese di marzo nella Fabbrica del Carro, nel rione Piccianello.
Il celebre detto materano recita “A mogghij a mogghij l’onn cj vàn”, che letteralmente vuol dire “Di meglio in meglio nell’anno che verrà”, riferendosi alla buona riuscita del carro.

Sinossi a cura di Aldo Onorati
E’ l’ora sesta (mezzogiorno). Dante procede insieme a Oderisi da Gubbio come vanno i buoi sotto il giogo, ma Virgilio, a un certo punto, lo esorta a proseguire lasciando la lenta schiera dei superbi curvati sotto il peso dei massi. Così, muovendosi dietro il maestro, il Poeta sente una leggerezza che quasi lo eguaglia a Virgilio che è spirito. E questi lo invita a guardare il pavimento, onde rasserenare il cammino. Ed ecco un anticipo di quanto osserverà il Poeta, datoci attraverso un parallelismo con le tombe terrene, sulla cui pietra è inciso un ricordo del morto, e da ciò scaturisce nei vivi sensibili una pietà che porta a ricordi struggenti. Qui, sull’intero spazio della cornice, vede esempi di superbia punita nei bassorilievi ai suoi piedi: la caduta di Lucifero da un lato e, dall’altro, il gigante Briareo (che mosse, con i suoi simili, guerra agli dei e che abbiamo incontrato in Inferno, XXXI canto) trafitto dal fulmine di Giove e incenerito sull’Etna. Gli esempi sono molti (Nembrot; Niobe –la superba madre che paragonava i suoi bellissimi figli ad Apollo e Artemide, i quali, sdegnati, uccisero tutta la sua prole e Niobe divenne di pietra per il dolore -; Saul, potente, vincitore in guerra, il quale si insuperbì per le sue doti ma venne punito da Dio tanto che cadde in battaglia, suicida, sconfitto dai Filistei; Aragne, già per metà mutata in ragno, a causa della sua tracotanza nell’abilità del tessere, avendo vinto la sua stessa maestra, Minerva, che, offesa, la tramutò, appunto, in ragno; Roboamo, figlio di Salomone, tiranno inviso al popolo – ma qui Dante lo nota terrorizzato fuggire su un carro -; Almeone, il quale uccise la madre Erigile che, per avere in sua proprietà la collana di Armonia, fatta da Vulcano, ordì un piano complesso e, divenuta padrona del prezioso ornamento, montò in superbia smodata, ma la collana portò male a tutte le donne che la indossarono, da Giocasta a Semele etc.; Sennacherib, re degli Assiri: egli marciò contro Ezechia il re di Giuda con 185.000 uomini, ma, a causa della sua irrisione al Dio d’Israele, un Angelo del Signore, in una sola notte, sterminò l’esercito – Sennacherib fuggì a Ninive, però proprio due suoi figli lo uccisero mentre pregava nel tempio. Il bassorilievo mostrava (il verbo forma cinque anafore di potente espressività, compresa quella del verso 63) ancora lo scempio operato dalla regina scita Tapiri, la quale, nel 529 A.C., poiché Ciro, re della Persia, le aveva ucciso il figlio, gli mosse guerra; sconfittolo, lo fece decapitare e, versando il sangue sulla sua testa, disse: “Sangue sitisti, ed io di sangue t’empio”. Mostrava la fuga degli Assiri dopo la morte di Oloferne (che non credeva al potere del Dio degli Ebrei, in quanto l’unico dio era Nabuccodonosor, e questa sua superbia fece la sua rovina). Ed ecco la rappresentazione di Troia in cenere, punita per l’oltracotanza della sua prosperità.
Dante osserva che nessun artista nel mondo sarebbe capace di scolpire le figure tanto espressive come quelle da lui ammirate in Purgatorio. I morti sembravano veramente morti e i vivi realmente vivi. Ed ecco un’ammonizione (dell’Alighieri, fra le tante dettate dagli esempi in pietra e dal parlare di Oderisi e Omberto) sull’inutile vantarsi degli uomini col viso altero (“non chinate il volto” è un’antifrasi che esprime, con ironia, il contrario di quello che il Poeta intende).
Virgilio esorta Dante a drizzare la testa verso l’angelo che sta per avvicinarsi a loro, e di accingersi a onorarlo con riverenza, considerando che è passato metà del giorno e il tempo non torna indietro. Il Poeta commenta dentro di sé l’esortazione del maestro, dicendo che è così aduso alle sollecitazioni di lui, che veramente nulla è oscuro in questo campo.
La terzina che segue è talmente alta, che va riportata: “A noi venia la creatura bella, /biancovestito e nella faccia quale / par tremolando mattutina stella” (diversamente da quanto si potrebbe credere, a Dante interessa fino a un certo punto la resa lirica: egli deve ammaestrare e rinnovare il mondo, per cui, quasi per miracolo scaturisce di continuo la luce della poesia, e credo inconsciamente talvolta: so di azzardare di grosso nell’affermare ciò). Così l’angelo, dopo aver rincuorato i due, rimprovera gli uomini tutti i quali, nati per salire al Cielo, cadono a causa di un vento così debole (la superbia). Poi, indicando una spaccatura nella roccia, batté le ali sulla fronte di Dante. Naturalmente, il Poeta non perde occasione per fare esempi vivi descrivendo luoghi della Terra simili a quelli del Purgatorio (lo ha fatto sovente per l’Inferno), e qui prende a prestito la chiesa di San Miniato sopra Firenze, e la salita per accedervi facilitata dalle scale. Ed ecco voci soavi cantare la prima beatitudine evangelica: “beati pauperes spiritu!”. Quale diversità di accoglienza salendo alle nuove cornici! Qui c’è il canto; all’Inferno i lamenti.
“Mi sentivo leggero come camminassi in pianura” (una “P” cancellata è un peso in meno, gli spiega Virgilio, annunciandogli che via via quei segni verranno espunti tutti). Dante si porta la mano alla fronte e si accorge che, infatti, le lettere sono sei; il gesto del pellegrino muove a sorriso Virgilio (ciò ha dato il destro a varie interpretazioni allegoriche, fra cui quella del Buti, secondo cui l’uomo apprende solo le cose presenti e lo fa usando i sensi).