Canto 15 - Visioni dantesche

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati

La protasi fonde narrazione e sentenze morali che molto somigliano all’incipit dell’undicesimo canto. Le anime beate, gli Spiriti Militanti, martiri della Fede, smettono di cantare per offrire a Dante la possibilità di parlare. Ed ecco, dal verso 13 al 24, un notturno di una bellezza unica, che dà il senso di solennità e di attesa: come nel cielo sereno, tranquillo e puro, talvolta passa velocemente un improvviso bagliore, obbligando gli occhi a muoversi per seguirlo, e sembra una stella che muti luogo, ma dal punto da cui si mosse nulla manca alla vista e la presenza della riga luminosa è brevissima; così, dal braccio destro fino ai piedi di quella Croce si spostò una gemma che seguì il percorso radiale della lista, sembrando il lume di una candela posta dietro all’alabastro.

Dante non perde occasione per ribadire il suo ruolo profetico, citando l’episodio dell’incontro di Enea con Anchise nei campi Elisi (già dall’inizio della prima cantica Enea e san Paolo vengono nominati quali predecessori di un viaggio straordinario, da vivi, l’uno nei regni dell’oltretomba pagano, l’altro nei cieli cristiani: cosa, quest’ultima, che ripeterà il Poeta fiorentino, per volere di Dio).

Quell’astro che è sceso seguendo il tracciato della Croce, si esprime in latino: “O sangue del mio sangue, o sovrabbondante Grazia di Dio, a chi come a te è stata dischiusa due volte la porta del cielo?”. Dante, stupefatto, si volge a Beatrice, la quale ardeva di un riso tale, che il Nostro credé di toccare il fondo della sua beatitudine e del suo paradiso. L’espressione sorridente della sua donna ha molti significati e il “riso” è diverso volta per volta, per cui va letto e interpretato secondo l’insieme della narrazione e dell’atmosfera.

Lo spirito aggiunse a quella frase cose talmente profonde, che il Pellegrino non riesce a comprendere: e questo non accadde per scelta, ma per necessità, dato che le parole di Cacciaguida superano la possibilità umana di intendere. Poi, quando l’ardore dell’incontro, al primo impatto, si fu disteso, la prima cosa che Dante capì fu la benedizione del suo trisavolo al Signore trino e uno, così benevolo verso di lui facendogli vedere il pronipote sebbene – e proprio perché - ancora in vita.
Un eloquio non breve spiega a Dante la lunga attesa dell’anima beata: una certezza di “arrivo” letta nella mente di Dio. Quindi, con un po’ di retorica necessaria alla situazione narrativa (il lettore non sa chi è l’anima e neppure Dante lo sa, per cui tanti passi di puntellamento e giustificazione dell’indurre il Pellegrino a chiedere cose che il beato già conosceva per ispirazione divina, ma delle quali il lettore non ha nozione e deve comunque venirne a conoscenza), si dipana questo colloquio.
Cacciaguida: “Tu credi che il tuo pensiero si trasmetta a me da Dio; per questo non mi chiedi chi sono e perché io sia il più gioioso di questo gruppo già pieno di letizia. Sei nel giusto a pensare così, e tuttavia tu devi parlare, chiedere quel che già so e a cui la mia risposta è già decretata, ma questo affinché si concretizzi in modo compiuto la carità che mi fa lieto dell’altrui allegrezza”.

Dante si volge a Beatrice, la quale, prima ancora che il suo protetto le palesi il desiderio, conosce la sua volontà; col sorriso consueto lo invoglia a esternare le domande che ha in cuore. Dante: “Voi avete una uguale misura nell’affetto e nella ragione, grazie alla luce divina che è Sole di giustizia. Ma in noi mortali, sentimento e intelligenza (voglia e argomento) diversamente son pennute in ali (hanno forze non in equilibrio). Io sono mortale; non posso che ringraziare col cuore per l’affettuosa accoglienza. Ora dunque ti supplico, vivo topazio, di rivelarti a me”. Cacciaguida: “O foglia del mio albero, io fui la tua radice. Quello che dette il nome alla tua famiglia e che da oltre un secolo sconta la pena nella prima cornice del Purgatorio, fu mio figlio e tuo bisavolo; prega per lui onde si accorci il tempo della sofferenza”.

Dal verso 97 il canto ripiglia vigore. Cacciaguida parla della Firenze del suo tempo, che si raccoglieva dentro la cerchia di mura antiche vivendo in pace, sobriamente e in modo pudico la sua popolazione, che non faceva sfoggio di lusso come oggi, e le case non erano vuote per il gran numero di esiliati, non vi era ancora giunto lo scandaloso Sardanapalo, lussurioso e corrotto, a insegnare i costumi decadenti. Né la ricchezza smodata dell’Uccellatoio gareggiava con quella di Monte Mario in Roma, veloce nel crescere e nel calare. Gli uomini erano morigerati nel vestire, onesti e veritieri; altrettanto le loro donne, intente ai lavori domestici e lontane dal lusso sfrenato. Fortunate, perché certe di vivere e morire in Firenze e ivi essere sepolte; nessuna era abbandonata ancora a causa della mercatura che portava i mariti in Francia per lungo tempo. In quell’epoca, avrebbero fatto scandalo una Cianghella, sfrenata nel sesso ed arrogante, un Lapo Salterello, personaggio colto, ma politicante traffichino e mezzano, come oggi vengono disprezzati invece esempi di rettitudine e generosità quali Cornelia e Cincinnato. 

Bisogna qui fare una riflessione necessaria. E’ Dante un laudator temporis acti? Un nostalgico del buon tempo antico? Anche, ma l’esaltazione del passato è soprattutto strumentale nell’Alighieri, onde sottolineare il male presente, coevo, ed il peggioramento della civiltà a causa della cupidigia, del veleno della guerra civile, della politica sporca.

Cacciaguida dichiara di essere nato a Firenze, dolce ostello, tra gente fidata, nel pacifico convivere di cittadini, che rende bella ogni cosa. “Mia madre, invocando in alte grida l’aiuto della Madonna, mi dette alla luce, e fui battezzato nel vostro antico Battistero di san Giovanni. Ebbi fratelli Moronto ed Eliseo (ma la questione è controversa, né vale la pena elencare le ipotesi); mia moglie venne dalla valle Padana e da lei, di nome Alighiera (o Aldighiera o Allagheria), si formò il cognome che tu porti. Seguii l’imperatore Corrado III di Hohenstaufen nella seconda Crociata, ed egli mi fece cavaliere, tanto gli fu gradito il mio operare. Dietro di lui andai combattendo quella religione iniqua che si è impadronita dei luoghi santi del cristianesimo, e questo per colpa dei papi che non si curano dei problemi sacri dei fedeli. Lì, da quella gente turpe, fui ucciso, e perciò svincolato dalla fallace realtà del mondo, l’amore della quale deturpa molte anime; e venni dal martirio a questa pace”.

La data di nascita del trisavolo di Dante sarà svelata nel prossimo canto, con un calcolo astronomico preciso e interessante. Qui daremo il prospetto della famiglia e della discendenza che porta al Poeta. Cacciaguida, della stirpe degli Elisei, sposa Alighiera proveniente dalla valle Padana. Ha due figli: Alighiero (primo, per distinguerlo dai discendenti) e Preitenitto. Dal primo nascono Bellincione e Bello (ipocorismo di Gabriello). Da Bellincione, Alighiero (secondo), Drudolo, Brunetto o Burnetto (da non confondere col più famoso Latini). Da Alighiero (secondo) nasce Dante.