Canto 26 - Visioni contadine

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati

Il fatto che Dante abbia perduto la vista a causa dell’estremo bagliore di san Giovanni, e che proprio durante la temporanea cecità l’Apostolo continuerà a interrogarlo sulla Carità, ha una significazione allegorica. Infatti, sarà Beatrice a restituirgli la capacità di vedere (ella è il simbolo della verità della Fede). Ora, proprio san Giovanni gli dice: “Finché rimarrai cieco – momentaneamente – compensa la mancanza della vista con il ragionamento. Parla dunque (seguendo il tuo visus intellettuale, opposto a quello fisico) e dimmi dove mira la tua anima. Sappi che fra non molto la donna tua opererà su di te come il discepolo Anania ha operato su san Paolo, restituendogli la possibilità di vedere dopo l’accecamento causato dalla luce di Cristo”.
Anche questa similitudine ci riporta alle altre fra l’Alighieri e san Paolo: tutto concorre alla sempre meno azzardata tesi del profetismo dantesco.
Il Poeta risponde che i suoi occhi furono le porte attraverso le quali Beatrice penetrò nel suo cuore con l’amore che mai a lui è venuto meno. Poi: “Dio è inizio e fine (Alfa e Omega, che però al tempo di Dante pare si scrivesse come Omicron) di tutto quanto la Carità mi insegna ad amare in ogni ambito dell’essere e del mondo”.
San Giovanni: “Sii più preciso: chi ha teso l’arco del tuo amore verso questo bersaglio?”
Dante: “Gli argomenti filosofici e la Rivelazione, perché il bene, quando si palesa forte e sincero, accende un amore sempre maggiore per quanto esso comprende in sé la perfetta bontà. Dunque la mente umana deve tendere verso Dio in cui c’è ogni superiorità su tutto e su tutti, tanto che quel che si trova fuori del suo raggio è difettivo (incontreremo questo concetto nel XXXIII canto)”
Una breve chiarificazione. In termini molto più semplici, potremmo schematizzare così il pensiero: il bene stimola all’amore, tanto più elevato per quanto maggiormente si avvicina alla perfezione; però il bene sommo è Dio e gli altri sono riflessi più o meno luminosi dei suoi raggi; allora l’amore più alto deve rivolgersi a Dio. San’Agostino afferma: “Amare è sete ardente dell’animo, ma amare Dio è perfezione d’amore”.
Continua l‘esaminando: “Tale verità è esternata da colui che mi fa palese e mi prova che il creatore è l’amore massimo al quale si indirizzano le anime”. Ora, quale è il filosofo non menzionato del verso 38? Aristotele? Però nel Medioevo il volume Liber de causis era attribuito al grande pensatore greco pur non essendo suo, ma un testo influenzato dalla teoria platonica in cui si tratta di Dio come amore primo. San Tommaso espose queste idee naturalmente nella Summa.
Dante continua ad elencare tutti coloro che lo hanno confermato nella Carità, anche Mosè (i testi sacri quasi premono all’urgenza dantesca, e qui egli si riferisce al libro dell’Esodo, precisamente al punto in cui il grande Legislatore, sul monte Sinai, chiese al Signore di poterlo vedere ed Egli rispose invece così: “Io ti mostrerò tutto ciò che è buono”). Poi, segue la dichiarazione che pure san Giovanni rende manifesta la Virtù di cui si parla, e lo fa nell’Apocalisse come nell’ampia introduzione del suo Vangelo. Quindi il Poeta ode: “Da tutto quanto dicesti, appare indiscutibile che il tuo amore più alto è rivolto a Dio, ma dimmi se esistono in te (e negli uomini in genere) impulsi diversi che sostengano l’ascesa all’amar Dio. Ecco la risposta secca e chiara di Dante, ma anche un po’ troppo onnicomprensiva: “Tutte quelle ragioni che possono volgere il cuore al Creatore sono concorse a formare il senso e la sostanza della mia carità, in quanto l’esistenza del mondo e quella dell’uomo, ma soprattutto il sacrificio di Gesù per redimerci, nonché la beatitudine che ci attende dopo la morte, in eterno, mi hanno scampato dalle passioni umane, indirizzandomi al vero porto dell’amore”.
I tre esami a cui il pellegrino si è sottoposto, si concludono con un inno corale (al quale prende parte anche Beatrice) liturgico: “Santo, Santo, Santo”.
Ora Beatrice ridona la vista a Dante, il quale, al pari del dormiente che viene destato da un bagliore improvviso, si trova lì per lì disorientato, finché la sua guida lo mise in condizioni di discernere chiaramente e lontano le meraviglie del Paradiso. Ma un quarto splendore appare, per cui il Poeta chiede chi sia. E’ Adamo. Egli occupa la seconda parte del presente canto, come a indicare, fra l’altro, l’unità del Vecchio col Nuovo testamento, essendo stati fin ora protagonisti Pietro, Giacomo e Giovanni.
Queste la parole che il Pellegrino rivolge al primo uomo: “O frutto che nascesti già maturo, o padre antico a cui ogni sposa è figlia e nuora, ti supplico devotamente di parlarmi: tu già conosci le mie domande”.
Adamo: “Tu desideri ardentemente sapere quando Dio mi pose nel Paradiso Terrestre e per quanto tempo i miei occhi si bearono di esso, nonché il motivo preciso dell’ira divina e l’idioma che, da me creato, usai. Devi sapere che la causa della cacciata dal Paradiso Terrestre non dipese tanto dall’aver gustato il frutto proibito, ma l’aver trapassato il limite assegnato all’uomo (ci viene in mente il “folle volo” di Ulisse etc). Dal Limbo, per 4302 anni desiderai questo luogo in cui mi trovo. Vissi 930 anni”.
Dante segue il computo cronologico di Eusebio, per cui, la cifra che si ottiene sommando la lunga vita di Adamo, i millenni della sua attesa, gli anni trascorsi dalla morte di Gesù, è 6498 anni dalla creazione. L’altro quesito che sta a cuore al Poeta è quello della lingua. Nel De vulgari eloquentia l’Alighieri sosteneva che il linguaggio di Adamo fosse quello ebraico, rimasto immutabile per millenni poiché di origine divina. Qui, invece, mette in bocca al primo uomo un’altra teoria: la favella da lui usata scomparve prima della costruzione della torre di Babele, in quanto nessuna cosa umana è immutabile. E’ un fatto innato che l’uomo usi la parola, ma è poi la natura che lascia ai popoli la scelta arbitraria dell’idioma. In principio Dio si chiamava I (in latino significa uno); poi EL (nome usato nella Bibbia, significante il Forte): non desta meraviglia ciò, perché tutto quello che è umano, muta e si rinnova come le foglie dell’albero. Nel Paradiso Terrestre restò sei-sette ore, compresa la vita onesta e quella dopo la disubbidienza. Dante fa sua la teoria di Pietro Mangiadore (“Historia scolastica”).