Canto 26 - Testa

Inferno

QUASI UN DIARIO DI VIAGGIO di Lamberto Lambertini
Da sempre ho in testa un cappello Borsalino. Scopro che la fabbrica è ad Alessandria. Andarci è stato compulsivo. Un'artigianale catena di montaggio, dal pelo, al feltro, fino alla forma finale che andrà per il mondo. Quel giorno, per la prima volta, ho avuto l'impressione che la mia lettura dantesca fosse diretta a quegli artigiani, che infatti, sembrano ascoltare, sorridendo, la Commedia, per distrarsi un poco dalla monotonia del lavoro. Arte e conoscenza.

XXVI - TESTA (Alessandria)
Borsalino

La produzione è stata avviata il 4 aprile 1857 da Giuseppe Borsalino, il quale rilevò, ampliandola a grande e rinomata industria, una fabbrica di cappelli che raggiunse il considerevole livello di 750.000 pezzi annui all'inizio del nuovo secolo. La produzione dei cappelli di qualità imponeva l'uso esclusivo di feltro di pelo di coniglio. Questo determinò una ricaduta positiva nell'economia rurale di una vasta regione che vide l'affermarsi di allevamenti domestici, in genere affidati alle donne e ai ragazzi. All'estero il marchio si estese in ogni dove, conquistando ampi mercati.

 

Sinossi a cura di Aldo Onorati
È mezzogiorno del sabato 9 aprile. Dante e Virgilio si trovano nell’ottava bolgia, in cui cono puniti i consiglieri di frode avvolti nelle fiamme, anzi nascosti da esse. Il contrappasso è chiaro: come la loro lingua - che emise parole di tradimento -, così la vampa è a forma di cono e brucia in eterno insieme al peccatore lungo una sorta di fiume nero al fondo della valle.
Anche se il canto inizia con un’apostrofe contro Firenze (e la citazione di Prato diviene fondamentale per la datazione d’inizio stesura della prima cantica, in quanto il cardinale Niccolò da Prato maledì violentemente Firenze nel 1304), e un lungo paragone fa da esempio per dare l’idea del luogo in cui si trovano i pellegrini (il contadino che, verso sera, lasciato il suo campicello, si riposa su un’altura, l’estate, e vede le lucciole pulsare là dove egli vendemmia ed ara), il nucleo narrativo si incentra tuttavia sulla figura di Ulisse, il quale arde insieme a Diomede. Infatti, come è accaduto già che qualcosa di insolito colpisse Dante (“quei due che insieme vanno”, Paolo e Francesca), il poeta viene attratto da una doppia lingua di fuoco che scivola lungo il buio mentre le altre sono sole.
“Chi è ‘n quel foco che vien sì diviso/ di sopra, che par surger de la pira/ dov’ Eteòcle col fratel fu miso?” (v. 52-54: Eteocle e Polinice, figli di Edipo e di Giocasta, dovevano, secondo i patti, governare Tebe un anno ciascuno, ma –come accade a chi è attaccato al potere- Eteocle non rispettò le regole, per cui il fratello marciò contro la città con un esercito a lui fedele, ma nella lotta trovarono insieme la morte; posti sulla pira, il fuoco si divise come se l’odio durasse oltre la vita).
Virgilio risponde che dentro a quella specie di lingua falcata “si martira/ Ulisse e Diomede, e così insieme/ a la vendetta vanno come a l’ira” (v. 55-57). Fra le pene da scontare, è preponderante quella del cavallo di Troia “che fé la porta/ onde uscì dÈ Romani il gentil seme” (v. 59-60: Enea, infatti, fuggì dalla città in fiamme per giungere alle sponde del Lazio).
Dante, al sentire di chi si trattasse, cioè quali spiriti famosi bruciassero in quella duplice fiamma, di cui un corno era maggiore dell’altro (Ulisse surclassa Diomede), ha una specie di tremore, un’ansia di sentir parlare il fascinoso guerriero e giramondo divenuto simbolo dell’avventura e dell’astuzia vincente. Replica le preghiere al suo duca affinché inviti la fiamma cornuta ad avvicinarsi a loro, per conoscere la storia vera seguita al ritorno in Itaca. Il poeta latino accetta di aiutare l’allievo, ma lo frena nella sua trepidazione per sentire uno degli uomini più famosi del mondo. Lo avverte: “Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto/ ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,/ perch’È fur greci, forse del tuo detto” (v. 73-75, variamente interpretati, ma la più vicina alla realtà è che Virgilio conosceva la superbia di quel popolo, sprezzante verso quanti non fossero greci. Ma Virgilio ha un’arma invincibile in mano: ha parlato di Enea negli “alti versi” che hanno immortalato nella fama anche i due dannati ‘fraudolenti’).
Infatti, quando la duplice fiamma fu al luogo e al tempo giusto, Vigilio tira fuori le sue credenziali, chiedendo esplicitamente: “ma l’un di voi dica/ dove, per lui, perduto a morir gissi” (v. 83-84). La captatio benevolentiae ha il suo effetto. Ed ecco una storia divergente da quella di Omero riguardo il furbo Ulisse. Dante forgia l’eroe secondo la propria sete di conoscenza, la quale non conosce ostacoli, tanto che il pathos narrativo in prima persona (del protagonista assoluto: Odisseo) afferra prima Dante e poi tutti i lettori. Quella fiamma si muove come una lingua desiderosa di parlare: si scrolla di dosso il silenzio di millenni e, scotendosi da una parte e dell’altra, gettò voce di fuori, iniziando il racconto dal momento in cui si dipartì dalla maga Circe, che lo tenne prigioniero più d’un anno presso a Gaeta, quando ancora la città non aveva preso il nome della nutrice di Enea, Caieta. Approdato a Itaca, non vi rimase per molto, nonostante la pietà (in senso latino) per il vecchio Laerte, suo padre, né l’amore dovuto alla fedeltà proverbiale di Penelope, col quale doveva ripagarla di tanta abnegazione e attesa, né la dolcezza del figlio: gli affetti familiari, i più potenti legami dell’uomo, non vinsero sull’ardore di conoscenza che infiammava l’animo mai sazio di Ulisse, desideroso di “divenir del mondo esperto/ e de li vizi umani e del valore” (v. 98-99: l’uomo, infatti, è un misterioso alternarsi – fondersi- di vizi e virtù). Con un “ma” esortativo e decisivo, si lascia alle spalle i doveri di padre, di marito e di figlio (e anche di re), tanto è forte la brama di usare “la picciola vigilia dei sensi rimasta” per conoscere il mondo “di retro al sol”, quello disabitato. L’eroismo della conoscenza non è inferiore all’eroismo guerresco, all’eroismo di navigatore in lotta con gli elementi scatenati dagli dèi divisi in amicizia e odio verso colui che aveva accecato Polifemo figlio del dio del mare.
La nave segue una rotta decisa, volgendo la poppa ad oriente e la prua ad occidente, fino alle Colonne d’Ercole, inviolabili per statuto degli dei. Con descrizione inventariale da viaggiatore dei mari (come sarà – mutatis mutandis - Filippo Sassetti, ad esempio), Dante è preso dalla materia, dalla geografia, dall’avventura di un viaggio preciso, descritto come un cartografo prestato al pelago: i punti di riferimento dello scorrere veloce di quel “folle volo” oltre le coste che scivolano ora a destra ora a sinistra imprimono l’idea di un supremo destino a cui l’uomo tende ma a cui è fatalmente negato l’approdo.
Passate Siviglia, e Ceuta nel Marocco, si deve decidere se affidarsi all’ignoto e scoprire un nuovo mondo, o tornare indietro. Il breve discorso esortativo di Ulisse ai suoi vecchi commilitoni li mette al bivio della vita rimasta e del sapere infinito. E qui la terzina forse più celebre della letteratura italiana, quella che distingue nettamente il compito della conoscenza eroica affidata all’uomo, dal vivere degli animali giorno dopo girono senza nulla sapere o desiderare oltre. “Considerate la vostra semenza: /fatti non foste a viver come bruti, /ma per seguir virtute e canoscenza” (v. 118-120, ove “canoscenza è scienza, perciò forma dissimulata del conoscere in generale). Un grido di assenso unisce il capo ai vecchi guerrieri: e da quel momento non si torna indietro. Prendono a mano manca, verso l’equatore, dei remi facendo ala al “folle volo”: folle indica chi ha il coraggio di forzare le leggi della natura e degli dei, facendo assegnazione unicamente sulle proprie possibilità (in Paradiso, Dante, osservando con un’occhiata il Mediterraneo, e poi puntando lo sguardo allo stretto di Cadice, ripeterà “ il varco/ folle d’Ulisse”, v. 82-83, c. XXVII Pd). Ecco l’equatore, dove tutte le stelle già dell’altro polo vedeva la notte, e il nostro era basso all’orizzonte, l’emisfero boreale. Erano trascorsi 5 mesi, quando apparve una montagna tanto lontana e talmente alta, da apparire bruna nell’atmosfera. Mai occhio umano (tranne Adamo ed Eva) aveva visto tanta superba grandiosità. È il monte del Purgatorio, con il Paradiso Terrestre. Dio ha negato all’uomo di rivederlo da vivo. Per cui, la sete di conoscenza, di per sé lodevole perché messa dal Creatore nelle nostre brame nobili di spingere il cuneo dentro l’inesplicabile mistero della vita e del cosmo, non deve tuttavia superare gli steccati delle leggi supreme. Una simbologia terribile, riassunta in un solo verso indimenticabile (“Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto”, v. 136), esprime la gioia incontenibile della scoperta dell’ignoto, ma anche le lacrime che seguono fatalmente al disvelamento dell’inconoscibile. Un turbine, nato proprio dalla nuova terra, sconquassa la nave, facendola girare tre volte intorno a se stessa mossa dalle acque; alla quarta si sprofondò in mare iniziando dalla prora, finché, come una lastra di marmo, le acque salse dell’emisfero australe chiusero in modo tombale un’avventura smisurata per l’uomo. È una contraddizione instillare nell’animo nostro il desiderio della conoscenza anche a costo della morte, e poi fermarci quando il nostro eroismo è andato oltre le forze umane. Ma tant’è!