Canto 19 - Visioni foscoliane

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati

Lo straordinario spettacolo dell’aquila nel cielo (a noi non farebbe l’effetto che sortì nella fantasia di Dante, in quanto le acrobazie aeree multicolori, il varcare i cieli fin sulla Luna e su altri corpi nello spazio, il cinema di fantascienza e altro ci hanno abituato a sorprese inimmaginabili fino a quasi un secolo fa) riempie il Poeta di meraviglia. Infatti, egli afferma che quanto sta per ritrarre, non è stato mai scritto da alcuno né dettato da voce umana prima di lui; infatti, il rostro della regina dell’aria parlò, usando l’aggettivo possessivo nostro al singolare (“mio”) e il pronome di prima persona plurale al singolare: “io” e “mio”. Quindi, tutti gli spiriti si consorziano in un unico essere, che è l’aquila. Formata dalle anime di quelli che nel mondo praticarono la giustizia e la pietà. La concordia e l’unità dei beati organizzati nel “santo segno” dicono a una voce che in Terra, sebbene pochi seguano il suo insegnamento, tuttavia non possono dimenticare le sue opere di giustizia. Traiano è una delle anime presenti in questo cielo, e il Poeta ne ha parlato nel canto X del Purgatorio, ma questo è un inciso, poiché Dante formula ancora una similitudine terrena per insistere sul molteplice fuso in unità: come da molti tizzoni del camino o del braciere si espande un unico calore, allo stesso modo tanti spiriti raccolti in quella forma significativa mandavano una sola voce. Così Dante chiede di risolvergli un antico lacerante dubbio, che essi conoscono per il riflesso divino. L’aquila risponde con un lungo panegirico sulla perfezione di Dio, il quale ha creato il mondo girando il compasso per tracciare i limiti del cosmo, ma la cui compiutezza inimitabile non fu possibile estendere e comunicare a tutte le creature affinché lo comprendessero e imitassero nella pietà e nella giustizia, se non nella perfezione stessa. Il limite nostro in genere consiste nell’impossibilità di concepire il pensiero e le azioni di Dio, non potendo arrivare con la nostra ragione alle inesplicabili sentenze della Sua Giustizia. “Tu dicevi”, continua il santo Segno, “che se un uomo nasce alla riva del fiume Indo, non trova chi gli insegni il Vangelo di Cristo, sebbene i suoi atti rispondano alla logica del bene e siano privi di peccato. Costui muore non battezzato e senza avere la fede cristiana: dov’è questa giustizia che lo condanna? Dov’è la sua colpa, se non è cristiano?” La domanda è provocatoria, dolorosa, profondamente umana, e chissà quante volte anche l’uomo contemporaneo se l’è posta, ma l’aquila risponde con uguale forza di impatto: “Chi sei tu che vuoi sedere nella scranna del sommo Giudice, avendo una vista miope? I dubbi sorgerebbero, in verità, ma solo in assenza delle Sacre Scritture, o animali superbi e ottusi!”.

E’ chiaro che Dante non ha risposte razionali al quesito; quindi si rimette all’imperscrutabilità dei disegni divini: “Cotanto è giusto quanto a lei consuona” (v. 88).

Come fa la cicogna che, dopo aver saziato i piccoli, gira sul nido e i figlioli la guardano, così fece il santo Segno, scuotendo le ali composte da molteplici spiriti uniti nell’azione quasi fossero uno solo, tanto che Dante leva gli occhi a tanto spettacolo, poiché l’aquila volava roteando e cantava: “Quali sono le mie note, incomprensibili per te, così è il giudizio eterno (di Dio) per tutti voi mortali”. Poi quelle luci concordi si quietarono nel segno che fece grandi i Romani nel mondo, ed esso (l’aquila) ricominciò: “A questo nostro regno non salì mai chi non credé in Cristo, né prima né dopo che Egli fosse crocifisso. Però fai attenzione: molti di coloro i quali gridano ‘Cristo, Cristo!’, nel Giudizio Universale si troveranno meno vicini a lui di chi non lo ha conosciuto (qui l’aquila echeggia il vangelo di Matteo, 7,21, in cui è detto: “Non chiunque mi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”). Questi falsi cristiani saranno condannati da un Etiope (da un pagano), quando l’umanità si dividerà in due schiere: quella dei beati e quella dei dannati in eterno”.

Ora la polemica del Poeta si irraggia su chi, conoscendo i testi sacri, non li ha messi in pratica. Nel grande libro in cui sono scritti i peccati degli uomini, al fine di sentenziare per sempre nel Giudizio Universale, si leggeranno le cattive azioni dell’imperatore Alberto di Germania, il quale invaderà la Boemia, il male che Filippo il Bello, che morirà colpito da un cinghiale, farà alla Francia falsando il valore del denaro, l’oltracotanza dei re di Scozia e d’Inghilterra che, per brama di potere, sconquassano l’isola distruggendo la pace dei popoli, Ferdinando IV re di Castiglia (secondo Dante reo di grande dissolutezza), Venceslao IV di Boemia (già definito dal Poeta uomo “cui lussuria e ozio pasce”, Purgatorio, VII, v. 102), Carlo II d’Angiò lo zoppo (ciotto, come Gianciotto il marito di Francesca da Rimini), re di Gerusalemme (la vocale “i” forse è da leggere come consonante “l”, che indica liberalità, mentre la “m” potrebbe stare per “mille peccati”: questo nel grande Libro del Giudizio). Si vedrà l’avarizia e la viltà di Federico II d’Aragona, e per dare un esempio del suo scarso valore e dei suoi molti peccati, quanto si scriverà di lui sarà a parole troncate, che annoteranno molte cose in breve spazio. Dante non si ferma qui riguardo a Federico (da non confondersi con Federico II imperatore romano e di Germania). Se la prende con lo zio e col fratello (Giacomo II re di Maiorca e Giacomo II re d’Aragona), che non hanno fatto onore né alla stirpe né alle due corone. Sempre su quel libro si conosceranno Dionigi di Portogallo, Acone VII re di Norvegia, Stefano Uros II di Rascia (Serbia) il quale fece coniare tante monete simili a quelle veneziane (il conio di Vinegia) falsificandone la lega, per cui i veneziani ne risentirono in peggio e la Serbia in meglio. Beata sarà l’Ungheria se non si farà più mal governare, e beata la Navarra se diventasse bastione dei Pirenei! (Per quanto riguarda l’Ungheria, al momento in cui il Poeta componeva questi versi, vi regnava Carlo Roberto d’Angiò, prode e valoroso figlio di Carlo Martello.) E come caparra e avviso del pericolo a cui sono esposti i suddetti luoghi, si lagni Cipro per la crudeltà del suo re Arrigo II di Lusingano.

Il canto e la sua conclusione sono importantissimi per ribadire la visione dell’impero e la stessa visione dell’Europa che Dante ha: la EMME, di cui qui sotto diamo schematica grafia, è simbolo di Monarchia, per questo il Poeta grida l’invettiva contro i cattivi reggitori dell’intero continente cristiano.