Capogrossi. La retrospettiva del 1974

L'analisi di Palma Bucarelli. Una figuratività costruttiva

Nella vasta retrospettiva dedicata a Giuseppe Capogrossi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel 1974, organizzata da Palma Bucarelli e curata da Bruno Mantura, fu possibile vedere finalmente l’intera produzione dell’artista riunificata. In questo filmato delle Teche Rai, realizzato nel 1975, Palma Bucarelli (1910-1988) commenta alcuni lavori del periodo figurativo, mai apparsi nelle precedenti rassegne dedicate all'artista, evidenziando come Capogrossi, fin dagli esordi negli anni Venti, avesse istintivamente messo a punto la struttura fondante del suo linguaggio artistico, la specificità di una ricerca tesa a superare il dato sensibile e il Tonalismo. L'intervento della storica dell'arte, direttrice dell'Istituzione dal 1942 al 1975  era volto a superare uno schema interpretaitvo resistente nel tempo: la totale incomunicabilità tra le due stagioni artistiche della pittura di Capogrossi, il topos di un artista "spezzato in due", dopo l'ardita svolta astratta degli anni Cinquanta. 
Nel testo introduttivo del catalogo dell'esposizione, Palma Bucarelli considera l'abbandono della pittura figurativa da parte dell'artista come di un passaggio necessario per poter comunicare in maniera diretta senza le intermediazioni del reale

Un segno liberatorio che, mentre compendia nella propria figura lo spazio e il tempo, libera l'esistenza dai limiti dello spazio e del tempo
Palma Bucarelli, 1974 

Una lunghissima avventura artistica quella di Giuseppe Capogrossi che cominciò, dopo aver combattutto nella prima Guerra mondiale e dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza a soli ventidue anni, ad eseguire, sotto l’egida di Gianbattista Conti, copie di quadri dei grandi maestri rinascimentali, da Michelangelo a Piero della Francesca, per poi passare a dipingere nature morte, ritratti femminili, paesaggi. Alla fine degli anni Venti l'artista realizza una serie di vedute di Roma che insistono sull’area del Lungotevere tra la Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini e la prospiciente area vaticana. Da notare il bisogno di ordinare geometricamente le forme del paesaggio, che nel tempo diventerà una costante della sua visione pittorica, riportata su un piano bidimensionale e l'insistenza  sullo stesso soggetto, anche a distanza di tempo, per verificarne tutte le possibili variazioni. Nel corso degli anni Quaranta Capogrossi continua a lavorare su questi stessi pochi  soggetti, con la prassi lavorativa messa a fuoco fin dagli esordi che consiste nell'isolare un particolare per metterlo progressivamente a fuoco, rendendolo sempre più essenziale, fino a stravolgerlo.
Nel 1932, insieme con Corrado Cagli, Emanuele Cavalli ed Eloisa Michelucci, alla Galleria Roma e l'anno successivo alla Galleria il Milione di Milano e alla Galleria Jacques Bojean di Parigi (con Cagli, Cavalli, e Sclavi) espose alcune delle sue opere. Il critico Waldemar George conierà il termine "Ecole de Rome", diventato famoso come "Scuola romana".
Tra il 1927 e il 1933 Capogrossi soggiorna più volte a Parigi ed è probabile che la sua pittura risenta di esempi impressionisti, come succede nello stesso periodo al giovane Mafai. Le sue opere riflettono la molteplice meditazione sulle forme e un'incessante sperimentazione della forza del colore di cui sonda le capacità costruttive. Tra i capolavori giovanili: Temporale, (1933),  e Il Poeta del Tevere (1932-33)
Tra Roma e la natura edenica di Anticoli Corrrado nella Sabina, dove Capogrossi si trasferisce nel 1939 con la sua famiglia per qualche tempo, inizia a studiare con un’attenzione intensa il corpo femminile, atteggiandolo in pose diverse, quasi fosse un nuovo pianeta da esplorare. Sembrerebbe non preoccuparsi di essere convenzionale o estraneo alla tragedia della storia, mentre i suoi colleghi, soprattutto giovani come Giulio Turcato, rigettano in maniera programmatica la pittura della sua generazione, che aveva innestato in forme astratte “contenuti del Trecento e del Quattrocento.” (Francesca Romana Morelli).

Nel corso degli anni Quaranta Capogrossi continua a lavorare sugli stessi pochi soggetti, ritratti, nature morte, paesaggi, con la prassi lavorativa messa a fuoco fin dagli esordi che consiste nell'isolare un particolare per metterlo progressivamente a fuoco, rendendolo sempre più essenziale, fino a stravolgerlo. E' la strada che conduce l'artista ad abbandonare la figurazione, dando vita ad un personale alfabeto pittorico caratterizzato da un segno costante, riconoscibile, con cui esordisce nel gennaio 1950 alla Galleria del Secolo di Roma.