Francesco Piccolo: tra narrativa e cinema

Francesco Piccolo: tra narrativa e cinema

Intervista di Maria Agostinelli

Francesco Piccolo: tra narrativa e cinema
Casertano, autore di Allegro occidentale, E se c’ero dormivo, Il tempo imperfetto e Storie di primogeniti e figli unici (tutti pubblicati da Feltrinelli) nonché vincitore del Premio Strega nel 2014 con il libro Il desiderio di essere come tutti, Francesco Piccolo ha prestato la sua penna al cinema regalandoci diverse sceneggiature, tra cui ricordiamo “My name is Tanino”, “Paz!” e “Ovunque sei”. Una scrittura, la sua, attraversata da toni comici, dove la leggerezza assume spesso il sapore acre dell’incomunicabilità. Qui ci parla della sua esperienza di scrittore tanto di cinema quanto di narrativa e di come le due modalità riescano a convivere. 

Ci puoi raccontare come sei arrivato al cinema dalla letteratura e come questo passaggio abbia influenzato il tuo modo di scrivere?
Nella mia formazione non ho mai diviso l’ambito letterario da quello cinematografico: sin dall’adolescenza ho letto molti libri e visto parecchi film. I miei libri - assolutamente non cinematografici perché non sono libri di trama e quindi non possiedono il fascino della trasposizione – hanno tuttavia delle strutture narrative di evidente derivazione cinematografica. Dopo aver iniziato a scrivere e pubblicare narrativa alcuni registi hanno cominciato ad interessarsi a me. All’inizio ho fatto un po’ di resistenza, poi ho capito che questa mia resistenza derivava dalla seduzione che l’ambito cinematografico aveva su di me: in realtà mi piaceva molto pensare di scrivere per il cinema, però non sapevo dove mi avrebbe portato. Avevo paura di perdere forza, energia e creatività letterarie. Tutto ciò, invece, non si avverato. Al contrario. Le due scritture convivono come due mondi paralleli - sono vicini ma non si toccano – e danno linfa l’una all’altra.

Dopo ogni periodo di scrittura cinematografica ho voglia di rimettermi a fare narrativa con maggiori energie rispetto a prima.

Dal punto di vista della scrittura il cinema e la letteratura hanno un impianto creativo molto diverso: la letteratura è intima e solitaria, mentre una delle cose belle del cinema è il lavoro di gruppo, e la parte di stesura e creatività collettive è quella che mi piace di più. A me è capitato di scrivere sceneggiature da solo, ma anche in questo caso ci sono state delle aperture, degli scambi con il regista e con tutti gli altri soggetti della macchina produttiva. È un po’ la stessa differenza che intercorre tra il cantante solista e il gruppo rock: la scrittura solitaria è bella e gratificante, ma la condivisione nella creazione di una storia è ugualmente bella. Le due cose occupano due spazi diversi. Gli elementi che le tengono insieme sono la passione, il mestiere, e quel po’ di talento per la scrittura. E soprattutto l’idea che la scrittura abbia molte facce, molti aspetti da sperimentare: il romanzo, il cinema, i racconti, il reportage…io cerco di muovere la scrittura lì dove si può.

Per quanto riguarda la resa psicologica dei personaggi mi pare che nei due ambiti le differenze siano molte: nella narrativa si può descrivere in terza persona la psicologia di un carattere, o trascriverne un dialogo interiore o anche altre modalità, mentre nel cinema tutto questo è affidato – oltre che alle azioni - soprattutto al sottotesto che dà corpo ai dialoghi…
Pur riconoscendo e accettando l’evidenza di questa differenza tendo ad avvicinare le diversità strutturali tra cinema e letteratura.

Credo che, ad esempio, il cinema possa insegnare alla letteratura la possibilità di dire e far intendere qualcosa attraverso le azioni e non solo tramite pensieri, dialoghi interiori e via dicendo.

Questo perché penso che la bellezza di una storia e di un personaggio abbia molto a che fare con l’espressione pratica e fattuale dei sentimenti e delle emozioni. In fondo in un racconto vale più, ad esempio, una reazione esplicita di gelosia che il dire: “lui era geloso, lei era gelosa”. In questo il cinema può essere molto utile alla letteratura: può costringerla a raccontare personaggi che agiscono invece di pensare, e se pensano lo fanno senza autodenunciare la propria emotività. Alle volte certe possibilità proprie della letteratura, certe analisi psicologiche dei personaggi si rivelano una specie di gabbia, inutile quanto noiosa.

Scorrendo la lista dei film tratti da tue sceneggiature noto che, con l’eccezione di “Ovunque sei”, si tratta sempre di commedie. È un semplice caso o corrisponde ad una tua predilezione per il genere? Ha a che fare con la tua letteratura?
Direi che si è trattato di una caso, perché per quel che mi riguarda non ho preclusioni di nessun tipo. Credo comunque che il fatto di aver spesso utilizzato un tono comico nella mia narrativa possa aver generato un’idea di Francesco Piccolo come di uno scrittore più adatto alle commedie. Per quel che mi riguarda, però, penso che le narrazioni vadano in modo naturale per la loro strada, comica o drammatica che sia. E questo preclude un talento specifico, soprattutto se si ha interesse per le storie e non per i generi.

A me importa raccontare delle storie: se si rivelano comiche sono contento perché mi piace molto divertire, se sono drammatiche va bene lo stesso perché mi piace anche far piangere.

Si tratta di due livelli emotivi da trattare in maniera democratica. Spero comunque che nei miei libri e nei miei film la comicità contenga sempre del tragico.

Prima hai sottolineato come per te l’ambito cinematografico e quello letterario scorrano paralleli: la tua letteratura è concepita per essere letta, non per trarne film. Ci sono però dei casi in cui testi fortemente letterari perché basati essenzialmente sul linguaggio – come nel caso di “Arancia meccanica” o “ Lolita” – riescono ad essere adattati per il cinema. Come avviene?
Se uno fa letteratura e crede nella letteratura – a prescindere della propria posizione e dal proprio talento – la sua opera si basa sulla lingua. C’è un tipo di letteratura popolare che invece è basato quasi esclusivamente sulla trama, come nei casi di Grisham o King: quando si vanno a trasporre cinematograficamente i loro libri non si opera sul linguaggio ma semplicemente si prende la trama e se ne trae una sceneggiatura. Laddove, al contrario, la letteratura è più ambiziosa e lavora soprattutto con il linguaggio bisogna fare esattamente l’operazione di Kubrick: sostituire a un linguaggio letterario un linguaggio cinematografico, sostituire la personalità dello scrittore con la personalità del regista. Questo è fondamentale.

Spesso si crede che essere fedeli sia semplicemente trasporre un romanzo in un film passo per passo, ma altrettanto spesso essere fedeli significa piuttosto portare una stessa struttura, una stessa “lingua” da un linguaggio ad un altro, da una modalità ad un’altra, magari snaturando completamente il romanzo di partenza.

Tutte le migliori opere cinematografiche tratte da libri hanno una personalità completamente diversa dalla letteratura da cui sono state trasposte, ostentano un’infedeltà che è l’unico modo per essere fedeli. I migliori film tratti dai romanzi di Moravia, ad esempio, sono “Il conformista” di Bertolucci e il film di Godard: questi due registi hanno preso il libro e vi hanno mischiato la loro “essenze”, ne hanno fatto qualcosa di profondamente differente.

La letteratura si fa con l’editore, il cinema con il produttore. Questo diverso tipo di rapporto come può cambiare la scrittura?
Tra l’editore e il produttore c’è una differenza in primo luogo pratica: nel pubblicare qualcosa il primo rischia sicuramente dei soldi, ma il secondo mette in gioco cifre cento volte maggiori. Questo cambia necessariamente il loro atteggiamento verso chi scrive. L’editore può consigliare e giudicare in maniera diretta e concreta: questo libro è bello e lo voglio pubblicare, oppure è brutto e non ho intenzione di pubblicarlo. Il produttore, invece, partecipa alla storia di un film, e quando gli si porta una sceneggiatura può intervenire con le sue idee.

Se racconto di un medico che muore, l’editore esprimerà semplicemente il suo giudizio positivo o negativo, mentre il produttore chiederà: perché è un medico e non un infermiere? E perché muore invece di continuare a vivere?

L’editore è completamente rispettoso della creatività e delle scelte autoriali, il produttore lo è di meno, è più invasivo perché il rischio che corre è maggiore.

Sei cresciuto insieme a libri e film. Come è entrato l’immaginario cinematografico nella tua letteratura? 
L’immaginario cinematografico è entrato nella mia letteratura in maniera naturale e visibile. Credo che nessuna letteratura contemporanea possa fare a meno dell’immaginario cinematografico nel modo di raccontare, nel modo di usare il tempo narrativo e le ellissi, nel modo di utilizzare il montaggio. Il montaggio, in particolare, è una peculiarità della letteratura del Novecento, una delle sue maggiori caratteristiche. Non è possibile prescindere dal cinema: è un gene che entra dentro la letteratura grazie alla sua forza. Non se ne può fare a meno e nessuno ne vuole fare a meno.