Perdita, identità e memoria in Paul Auster

Perdita, identità e memoria in Paul Auster

Intervista di Claudia Bonadonna

Perdita, identità e memoria in Paul Auster
A colloquio con l’autore di culto de La trilogia di New York, lo splendido cinquantenne che ha fatto di Brooklyn e Manhattan il regno del proprio successo e della propria nostalgia, e il luogo ideale della ricerca: di personaggi, di se stesso, di noi tutti. Da vero divo, anche e soprattutto nella flautata sobrietà della sua voce, Paul Auster racconta l’arte sottile dello storytelling, la magnifica moltitudine della sua città, il flirt con il cinema e l’inevitabile condizione di padre post-moderno e post-esistenziale della nuova letteratura americana.

I temi di perdita, identità, memoria, solitudine, caso, ricorrono spesso nei suoi libri, quasi fosse una forma di catarsi…
È possibile, ma non ne sono sicuro. A me sembra che i racconti più interessanti nascano dai momenti di crisi nella vita delle persone, e sono questi i territori che mi ritrovo sempre, in un modo o nell’altro, ad esplorare. Eppure non riesco a spiegarne il perché.

Non è una decisione cosciente: le storie prendono forma da sole nella mia mente, non so mai davvero da dove provengono, premono per uscire e quasi mi costringono a essere scritte... Non c’è altra spiegazione che sia in grado di dare…

Nel suo ultimo romanzo, Il libro delle illusioni, c'è una continua intersezione tra letteratura e cinema. Qual è il rapporto tra il suo lavoro di sceneggiatore e il mestiere di scrittore?
Ho scritto solo due vere sceneggiature giacché Blue in the face, il primo film che ho fatto, era essenzialmente improvvisato: non esistevano note per gli attori, ma solo un cosciente rifiuto di qualunque forma di dialogo scritto. Dai miei due script, Smoke e Lulu on the bridge, ho compreso quanto creare sceneggiature sia profondamente differente dal creare romanzi. Si pensa che una sceneggiatura debba essere più reale e precisa dal punto di vista iconografico, ma in realtà è vero il contrario.

Quando scrivi un racconto, vivi in un contesto tridimensionale: inventi un passato, un presente, un futuro, immagini cose da toccare, da odorare… Una sceneggiatura significa invece strutturare una storia attraverso una combinazione di immagini e parole visibili solo da un’angolatura fissa: è un ambiente bidimensionale.

Sai che ci sarà un’immagine proiettata su uno schermo, sai che ci sarà un fotogramma e pensi a cosa potrai metterci dentro, a come potrai raccontare la storia all’interno di quella serie finita di piccole finestre. È un lavoro molto artificiale. Nelle sceneggiature che ho scritto c’è sempre un gran movimento di cose, spesso anche delle sviste di tempo o di azione. Questo non mi capita mai nei romanzi, che nascono come un’esperienza molto più organica, che quasi si generano da soli, con un perfetto ordine spontaneo. Produrre una sceneggiatura invece è come comporre i pezzi di un puzzle… una faccenda così incredibilmente diversa…

E il suo rapporto con Hollywood? Le piacciono di solito le versioni filmiche dei suoi romanzi? 
Solo un mio libro è diventato un film alla cui realizzazione non ho partecipato: La musica del caso. È successo undici o dodici anni fa. È stato interessante vederne la trasposizione cinematografica, tutto era così diverso dalle immagini che mi ero figurato mentre scrivevo: le cose, le persone. È stato davvero scioccante ritrovarle così… lontane, reinterpretate. La pellicola era piuttosto buona, non un capolavoro ma un bel lavoro attoriale. È stata la prima opera di un giovane regista di allora, Philip Hass, con bravi interpreti… un piccolo film molto indipendente realizzato dalla American Playhouse, la sezione di produzione di una compagnia televisiva pubblica. Nulla a che vedere con Hollywood, insomma, con cui del resto non ho intrattenuto mai alcun tipo di relazione. Anche gli altri film in cui sono stato coinvolto erano delle produzioni indipendenti di New York. Non ho mai avuto rapporti con la grande macchina dell’industria americana dell’intrattenimento, quello è tutt’un altro scenario…

Don DeLillo ha dedicato a lei il suo ultimo romanzo Cosmopolis, ma ha detto anche che ha un’idea molto diversa di New York. Com’è l’idea della “cosmopoli” nei romanzi e nelle pellicole di Paul Auster?
I miei film su New York non hanno nulla in comune con quelli di Scorsese, Woody Allen o Spike Lee – giusto per citare i nomi degli autori più significativi che hanno raccontato la città negli ultimi quindici anni. Quella che abbiamo cercato di ritrarre in Smoke e Blue in the face (con il regista Wayne Wang, ndr) è una New York interrazziale: la dimensione più vera della città secondo me. Scorsese è troppo legato alle sue origini italiane, Spike Lee è più interessato alle storie dei neri di Brooklyn, Woody Allen porta in scena la borghesia bianca dell’Upper East e West Side. Per me queste sono New York impossibili, sono i suoi lati meno interessanti.

Quello che fa di New York una città particolare è il modo in cui la gente interagisce attraverso e malgrado le differenti provenienze, i differenti colori e religioni. È un proprio un altro modo di approcciare agli altri…

Nei miei romanzi è rappresentata una città ancora diversa. I personaggi vivono lì ma sono essenzialmente figure solitarie. Se nei miei film hanno rapporti significativi tra di loro, nei libri sono invece entità isolate e la città stessa assume un’apparenza più spettrale. L’unico romanzo in è raccontata una società newyorkese dal sapore mondano è forse Sbarcare il lunario: lì ci sono amicizie, amori, serate mondane, vita di tutti i giorni. Ma per quanto riguarda gli altri lavori, no. In Moon Palace, per esempio, il povero Marco Fogg è un individuo terribilmente solitario, al punto che finisce a vivere da solo in quel di Central Park – cosa che certo non è normale, anche se esistono persone che lo fanno per davvero… La cosa interessante di New York, sia come set per un film che per un romanzo, è appunto questa straordinaria diversità della moltitudine che offre. Ogni cosa è possibile in questa città, ogni tipo di vita è vivibile ed è effettivamente vissuta.

Lei è molto eclettico: ha scritto detective story (La trilogia di New York), commedie, drammi, persino favole come Mr. Vertigo e Timbuctù. Quale di questi aspetti della sua scrittura preferisce? 
Nessuno in particolare, cerco di mantenere la mente aperta a qualsiasi forma di composizione. Non voglio avere restrizioni, per giunta autoimposte. Non voglio limitarmi ad un solo tipo di lavoro, sarebbe troppo noioso. È fondamentale salvaguardare la propria immaginazione e non precludersi alcuna possibilità. Il mio grande modello - e questo non è un modo per mettermi al suo livello - il modello da cui traggo l’ispirazione alla diversità è Shakespeare. Che infatti ha scritto di tutto. Che è stato capace di raccontare il mondo in commedie molto comiche o tragedie molto tragiche. In Shakespeare c’è magia ma c’è anche realtà, e non vedo perché ci si debba costringere a percorrere una sola di queste direzioni.

A proposito di classici, ha dichiarato di sentirsi molto vicino a Poe e Hawthorne. Può spiegare questa passione? Crede che ci sia un ritorno a forme classiche di narrativa nella letteratura moderna americana?
No, non credo ad un vero ritorno della classicità in America, le cose tendono sempre ad andare avanti. Ci sono però alcuni scrittori, che sono anche miei buoni amici, che dividono con me il culto per Hawthorne: Russell Banks e Rick Moody.

Questo è il suo decimo romanzo e lei è uno degli scrittori più autorevoli e apprezzati d'America. Sente il peso di lasciare una qualche eredità alle nuove generazioni di scrittori? Come giudica il nuovo corso letterario inaugurato da Foster Wallace, Antrim, Eugenides e gli altri storytellers di ultima generazione?
È sempre difficile rendersi conto dell’immagine che si dà di sé al mondo. Io non ci riesco, ma credo che questa sia la condizione a cui è condannato ogni essere umano. Dal canto mio non tento di interpretare alcun ruolo, non so pensarmi buono o cattivo, provo solo a fare il mio lavoro e lascio che siano gli altri a giudicare quello che faccio. Per quanto riguarda i nuovi giovani scrittori, be’ sono molto consapevole di questa scena emergente piena di veri talenti.

La cosa incredibile della letteratura è che tutti dicono che è finita: il romanzo è morto, i racconti brevi sono morti, eppure vedo che la narrativa è in una condizione sempre più florida e sana, non solo negli States ma in tutto il mondo. E c’è una ragione se succede questo. La verità è che un libro è un posto unico al mondo, è un luogo senza spazio, l’unico luogo in cui due estranei - lo scrittore e il lettore - possono incontrarsi intimissimamente e condividere i pensieri e le emozioni più profonde.

Nei film non accade. Nella pittura non accade, non nello stesso modo almeno. Accade solo nei libri. Ecco perché, anche se la tecnologia cinematografica fa passi da gigante, anche se presto sarà possibile collegarsi a qualche apparecchio elettronico con una spina in testa e proiettare film direttamente nel cervello, la gente continuerà sempre a leggere libri.

Scuole di scrittura creativa. Vantaggi e svantaggi.
Non ho mai condotto corsi del genere, né ho mai avuto allievi a cui insegnare a scrivere. So che si tende a considerare quest’attività come una forma di allenamento a prove maggiori, ma io sospetto che sia piuttosto inutile. Circa vent’anni fa, ho tenuto un corso all’università di Princeton sulla scrittura della traduzione. È durato alcuni anni, giusto il tempo di concludere che certe cose… bè, forse non fanno male, ma nemmeno aiutano troppo gli aspiranti autori. A me pare piuttosto una sorta di terapia placebo. Gli scrittori insegnano ad altri scrittori, ma nessuno può insegnare a qualcun altro come scrivere. Un buon maestro sarà chi aiuta un esordiente ad evitare certe trappole, chi gli farà capire i suoi punti deboli. Ma creare un genio, no, non si può. Non si può creare il talento. Se uno scrittore è bravo, alla fine lo capirà da solo…

Di Claudia Bonadonna, con la collaborazione di Andrea Monda