Maus: graphic novel premio Pulitzer di Art Spiegelman

Maus: graphic novel premio Pulitzer di Art Spiegelman

Intervista a Moni Ovadia

Maus: graphic novel premio Pulitzer di Art Spiegelman
La Shoa e la sua rappresentazione per uno dei fumetti più letti e più famosi, Maus di Art Spiegelman, qui raccontato attraverso le parole di Moni Ovadia nell'intervista a cura di Maria Agostinelli e Florinda Fiamma.

La prima parte di Maus, il racconto a fumetti che ha posto Art Spiegelman nell’Olimpo dei fumettisti (e non solo) di tutti i tempi, esce nel 1986. Nel 1992 Spiegelman vince il Pulitzer, un premio che diventa anche la consacrazione ufficiale e tardiva di un linguaggio - quello dei fumetti - capace di raccontare nel suo modo ellittico e (non sempre) confortevole la cultura del Novecento, soprattutto quella urbana. Senza nessuna petizione di principio, sicuramente senza snobismo. Dal formato tabloid dei giornali dove apparve il primo personaggio dei comics americani – Yellow Kid – alle ultime tavole aerografate di un altro grande fenomeno americano: gli X-men. Da Disney alle scuole europee, sudamericane, giapponesi. Il fumetto è stato di volta in volta definito triviale, basso, infantile, fenomeno subculturale, o al contrario genuino, democratico, visionario. 

Maus sfrutta e rielabora la tradizione fumettistica alle sue spalle, e lo fa raccontando un evento, la Shoa, che per importanza e drammaticità non sembrerebbe adatto alle strips. È un fumetto la cui narrazione si struttura su una dislocazione temporale: la storia passata di Vladek Spiegelman – il padre di Art, sopravvissuto ad Auschwitz – che racconta al figlio la vicenda della sua deportazione, e la quotidianità di Art nella New York di fine anni Settanta. Ad unire due uomini con una vita così diseguale e con un rapporto compromesso dalle troppe differenze nel carattere e nelle aspettative, dai mille drammi che hanno caratterizzato la loro esistenza (non ultimo il suicidio della madre di Art, Anja) è proprio il significato e l’importanza di questo racconto. Art chiede al padre di trasmettergli i suoi ricordi, di fargli sapere in cosa consistesse l’orrore dei lager nazisti. Vladek risponde con naturalezza, trovando proprio nel suo racconto uno dei pochi canali comunicativi possibili con il figlio. Ne viene fuori un affresco assolutamente epurato dalla retorica o da qualsiasi velleità vittimista, soffuso di sottile ironia, splendidamente congeniato. Avvincente.

Art, il cui problema principale riguarda la raffigurazione visiva della Shoa, ribalta ironicamente la convinzione nazista che gli ebrei fossero assimilabili ai topi (e, in quanto tali, da eliminare) disegnandoli proprio come topi. O meglio con la faccia da topo. Un’antropomorfizzazione degli animali (o anche una “animalizzazione” degli uomini) che si riflette nelle varie nazionalità prese in considerazione dal fumetto: i nazisti sono gatti, i polacchi maiali, gli svedesi alci, gli statunitensi cani. Il tutto condensato in tavole minute, con un bianco e nero nitido e crudele che potrebbe ricordare i grandi film dell’espressionismo tedesco. Come rappresentare il male? Sembra essere questa la domanda di fondo che si è posto Spiegelman. La risposta - assolutamente e consapevolmente parziale - è abbozzata in questo fumetto: una storia che non è mai, in nessun caso, consolatoria. Ne parliamo con il musicista, attore e sceneggiatore Moni Ovadia.

Maus descrive l’Olocausto attraverso il linguaggio dei fumetti. La ritiene un’operazione riuscita?
Il lavoro di Art Spiegelman è straordinario, perché la vicenda riesce a coniugarsi mirabilmente col tratto. Quest’idea del topo antropomorfo è una scelta geniale, perché il topo viene visto come una cosa sinistra e minacciosa. Peraltro il rapporto tra gatto e topo – questo gioco così crudele – incarna alla perfezione il tipo di relazione esistente. Spiegelman è stato straordinario anche nella scelta del linguaggio e nella costruzione della storia.

Quella di Maus rimane una delle forme narrative più felici, per raccontare gli eventi di quel periodo, benché io ritenga che si tratti di un’opera d’arte che non racconta la Shoah, ma che ci si misura e per questo riesce a ottenere risultati intensi, commoventi, forti.

Io credo che nulla possa raccontare la Shoah, se non la testimonianza diretta di coloro che vi furono dentro, ovvero gli uomini che si raccontano direttamente. Il capolavoro assoluto, a tal riguardo, per me rimane il film di Lanzmann Shoah: nove ore di film in cui non vediamo né orrori né trasfigurazioni dell’orrore, ma solo esseri umani che si raccontano nel dolore, con le loro ritrosie, con i loro sorrisi e i loro pianti, perché così è l’essere umano.

A tutt’oggi non è semplice rappresentare l’Olocausto: sembra che le immagini non siano mai abbastanza aderenti ai fatti, o peggio che non abbiano più mordente…

La rappresentazione dell’Olocausto rimane un problema irrisolto. Il lavoro di rappresentazione introduce tra noi e l’Olocausto una forma di pietas importante.

Perché, se per esempio ci prendessero per mano, ci portassero a una finestra, ce la spalancassero e noi vedessimo cos’è stato lo sterminio in tutti i suoi aspetti, io non credo che sopravviveremmo più di una settimana. Finiremmo col suicidarci. Primo Levi, che ha vissuto l’esperienza e che ne ha ricostruita la memoria attraverso un vero capolavoro letterario, ci permette di accostarci alla Shoah attraverso la pietas narrativa ed artistica, rendendo individuale un fenomeno di massa, l’orrore della nientificazione, dell’uomo ridotto a merce da cancellare. Ecco a cosa serve l’opera d’arte. Quali siano gli strumenti migliori per rendere efficace la comprensione dell’Olocausto io non lo so, perché dipende dalla sensibilità dell’artista. L’importante è sapere quali siano anche i limiti della forma artistica scelta. Nessuno può pensare che vedere al cinema un nazista che spara in testa a un bambino ebreo sia come vederlo davvero davanti ai propri occhi. Allora il film di Spielberg è solo un film. È un artista che si misura con quella vicenda. Il film di Benigni? È solo un film. Possono piacere o meno, ma è importante che ciascuno sappia che non si tratta della rappresentazione della Shoah: si tratta solo della rappresentazione di un artista che si misura con quell’evento. E questo vale per ogni opera: questo è solo un libro, quest’altro è solo un film e quest’altro ancora è solo uno spettacolo di teatro.

In Maus sono presenti due registri: quello cronachistico, del presente, e quello storico, del passato. In che modo Spiegelman riesce a gestire questi due piani narrativi?
La scelta di Spiegelman del doppio registro narrativo – ciò che gli è contemporaneo e la storia vissuta da Vladek – è un’intuizione folgorante e importante. La memoria è un progetto per il futuro. Allora il presente, il passato e il futuro della Shoah devono integrarsi, altrimenti si ripiega sull’idea che il passato sia passato.

Spiegelman fa tesoro di un grande insegnamento dell’ebraismo, che riguarda la liberazione dall’Egitto: noi la ricordiamo ogni anno.

Il passaggio dal padre al figlio, che prepara il passaggio dal figlio al nipote, è la garanzia, o almeno il tentativo di garantire, che l’evento non si ripeterà più, perché si incide nel presente di chi vive. Se non mettiamo ogni nostra fibra al servizio di quella memoria, essa diventerà inutile.

La scelta di Spiegelman di rappresentare gli ebrei tramite i topi è stata criticata. Qual è invece, secondo lei, la forza metaforica di questa rappresentazione?
Condivido perfettamente la scelta di Art Spiegelman del topo, perché il topo è visto come essere minaccioso. Il topo è quello che scatena nell’uomo la voglia di annientamento: il topo spaventa, terrorizza, è portatore di strane malattie e di affezioni. Questa rappresentazione è stata molto efficace, perché così i nazisti vedevano gli ebrei. Li vedevano come un virus, una piaga, come qualcosa da cancellare: bisognava disinfestare l’Europa dagli ebrei. Quando ammazzavano tutti gli ebrei dicevano che il territorio era Judenrein “pulito”, “puro dagli ebrei”.

Ci può raccontare qualcosa di Vladek, che è un personaggio piuttosto contraddittorio, in bilico tra presente e passato...
Non si può uscire dalla Shoah. Si può tentare di costruirci un rapporto creativo, per usare una brutta parola, un rapporto di distanza, ma non se ne può uscire. Come può Vladek non vivere nel passato? Come può col proprio figlio non arrivare al punto della resa dei conti? La vita continua… Forse un figlio il cui padre non parlasse mai dell’evento, che stesse zitto, potrebbe dire: perché hai continuato a vivere? Sarebbe un atto di crudeltà verso se stessi rimuovere quell’esperienza.

No. Non si può dimenticare, per nessuna ragione. Mai.

Certo non si deve cadere nel monumentalismo, nella celebrazione. Bisogna che quella memoria diventi viva, pulsante, che venga trasmessa. Talora persino ricevere quella memoria è doloroso.

Maus sembrerebbe risolversi in un’operazione catartica, sia per Vladek che per Art Spiegelman...
Lo scopo di Maus è quello di far capire che la memoria è l’unico strumento che si ha per non essere sconfitti dal Nazismo. Se questa memoria si trasmette, diventa uno strumento per costruire un’altra storia, un’altra umanità. Il solo modo per non farli vincere è costruire un’altra umanità. Io non mi faccio incantare dalle “coccole” che fanno oggi agli ebrei: voglio vedere come trattano gli zingari, i curdi, i mussulmani, gli africani. È da lì che capisco se la relazione con gli ebrei non è che un’ipocrita forma di riabilitazione tardiva e postuma di un Occidente che ha fatto bancarotta fraudolenta. O se invece è l’Occidente che riflette sui propri errori e vuole cambiare la propria storia, attraverso il rispetto dell’altro, la giustizia sociale, il rifiuto di ogni tipo di guerra.

Il filosofo Hans Jonas ha affermato che dopo la Shoa l'onnipotenza di dio non è più pensabile. In che modo la religiosità, sempre che ci sia, filtra dalle pagine di Maus?
Il problema della fede dopo Auschwitz è un problema assai complesso. Io non sono un credente, ma ritengo che ci siano diverse risposte al silenzio di Dio. Una di quelle che mi ha più colpito è stata questa: “Ma dov’era Dio mentre sterminavano il suo popolo e lo macellavano?” e qualcuno, non ricordo chi, ha risposto: “Dio era lì, si faceva macellare col suo popolo”.

Io credo che il problema di Dio, come anche il problema dell’uomo, non sia tanto che l’uomo creda in Dio, ma che l’uomo creda nell’uomo, impresa assai più difficile.

Il rapporto con il divino deve far sì che l’uomo accolga l’altro uomo secondo la modalità del comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso”. La relazione con Dio è tutta sulle spalle dell’uomo: Dio si è affidato all’uomo, secondo me.