Valerio Magrelli: tradurre poesia

Valerio Magrelli: tradurre poesia

Intervista di Andrea Monda

Valerio Magrelli: tradurre poesia
Il poeta e critico letterario Valerio Magrelli discute i problemi della traduzione poetica in questa intervista di Andrea Monda.

C’è traduzione solo quando c’è tradimento. E c’è tradimento perchè c’è la necessità di fissare delle priorità - Valerio Magrelli


Valerio Magrelli è nato a Roma nel 1957. Laureato in Filosofia all'Università di Roma, insegna Lingua e Letteratutra Francese all'Università di Pisa. Dopo aver diretto per alcuni anni la Collana di poesia Guanda, ha diretto per le edizioni Einaudi, la serie trilingue della Collana Scrittori tradotti da scrittori. Collabora alle pagine culturali de Il Messaggero, de L'Unità e di Diario. Scrive settimanalmente su Avvenire. Ha pubblicato tre raccolte di versi: Ora serrata retinae (Feltrinelli, 1980); Nature e Venature (Mondadori, 1987); Esercizi di tipologia (Mondadori, 1992), riunite in un unico volume, dal titolo Poesie e altre poesie (Einaudi, 1996). Tra i suoi lavori critici, lo studio Profilo del Dada (Lucarini, 1990) e la monografia La casa del pensiero. Introduzione all'opera di Joseph Joubert (Pacini, 1995). È autore dell'antologia Poeti francesi del Novecento (Lucarini, 1991), oltre che di alcune traduzioni da Valéry, Mallarmé, Debussy, Verlaine.

Come rispondi all’affermazione che la traduzione equivalga sempre ad un tradimento?
Direi che c’è traduzione solo quando c’è tradimento. E c’è tradimento perchè c’è la necessità di fissare delle priorità. Un esempio: in una poesia Baudelaire usa il termine la douleur, che è di genere femminile. Ebbene, in quella particolare composizione, questo particolare diventa ancora più importante di tante altre istanze traduttorie solitamente più rilevanti (rime, metro, serie anaforica, enjambement). Per me il traduttore che traduce «il dolore» commette un grave fraintendimento, e lo dico malgrado la proposta avanzata da Antonio Prete nella sua finissima, esemplare versione apparsa da Feltrinelli. Il fatto che l'interlocutore sia di genere femminile, come la musa, costituisce, credo, il cuore di quell'opera, un cuore che volta per volta si sposta: una vera festa mobile del testo. È la particolarità della poesia, quella di non avere un cuore sempre nello stesso punto. In questa poesia di Baudelaire, il cuore risiede addirittura nel genere, cioè nel femminile di quel sostantivo. La traduzione, come ogni arte dell’ascolto (prendo questa definizione da Starobinski), consiste essenzialmente nell’individuare quello che secondo l’interprete è il centro nevralgico del testo, centro che può collocarsi in un livello o in un altro.

Il traduttore deve essere quindi libero, deve poter tradire più che tradurre?
Direi che qui vige la regola del "meno uno”. Mi spiego. In pieno Seicento, il francese Gilles Ménage parla per la prima volta delle traduzioni come di "belle e infedeli" a cui contrapporre delle "brutte e fedeli". Ora, secondo me, tale concetto di “fedeltà” implica un terribile equivoco. Infatti, quello di fedeltà è un concetto plurivoco. Non esiste la fedeltà a un testo: ogni volta che traduciamo, e parlo di poesia, ad esempio un sonetto, dobbiamo decidere a quale delle non infinite ma innumerevoli funzioni del testo vogliamo essere fedeli. Lavorando sul piano del metro, per esempio, possiamo essere fedeli al fatto che il sonetto è isometrico, per cui, passando dall’alessandrino alla metrica italiana, dobbiamo decidere se optare per gli endecasillabi o i doppi settenari. Questa scelta esclude inesorabilmente altre possibilità; ecco perché la fedeltà è poi sempre fedeltà a una singola funzione. Oppure, altra possibilità, possiamo decidere di essere fedeli al sistema ritmico. Ciò, tuttavia, ci porrà inevitabilmente in contraddizione con altre possibili funzioni. Possiamo scegliere di essere fedeli al sistema metrico, conservare alcune delle figure che riusciamo a individuare, e così via. Volendo fare una lista dei problemi sollevati dal testo, si vede che le voci sono otto, nove, dieci... il metro, la rima, il tipo di metro, il tipo di rima (perché, per esempio, il francese ha maschile e femminile), la disposizione delle rime, i generi dei sostantivi, le figure retoriche, le figure che possiamo individuare... Arriviamo così a una dozzina di voci. Alla fine, si potrebbe arrivare a dare una definizione della traduzione come di qualcosa che, per definizione, può rispondere a tutti gli elementi presenti nell’originale tranne uno. Direi anzi che la definizione di traduzione che a me sembra più convincente potrebbe iscriversi nella «regola del meno uno». Insomma, siamo di fronte a una traduzione quando almeno un elemento del modello originario va perduto. Per questo, davanti alla battuta di Mènage delle belle e infedeli, mi viene da rispondere con una delle frasi dell’abate Galiani, una frase che rientra nei galatei e nella precettistica politico-morale, che dice: quando vi inchinate a un potente, voltate sempre le spalle a qualcun altro; cioè quando voi rendete omaggio a una persona, c’è almeno un’altra persona a cui contemporaneamente, per il fatto di ossequiare il primo, finite per arrecare offesa.

Quali sono state le esperienze più “dure” nel tuo lavoro di traduttore?
Non posso dimenticare il primo testo che tradussi. Un saggio di Mallarmé. Fu una specie di sesto grado della traduzione, un anno intero di lavoro che sostanzialmente si chiuse sul problema della punteggiatura. Non ho più avuto a che fare con un corpo così complicato, così intricato. In genere mi sono dedicato all’Otto-Novecento. Alcuni esempi significativi sono stati per me Artaud e Perec, oltre a Baudelaire. Per quanto riguarda Perec la situazione è piuttosto intricata anche perché ho lavorato in particolare sulla traduzione dei lipogrammi cioè di quei procedimenti compositivi in base al quale l’autore decide di sottoporsi volontariamente a una contrainte, a un obbligo, a una costrizione. Nel caso del lipogramma, si decide di asportare dal linguaggio un elemento. Perec ha scritto un romanzo di 400 pagine che si intitola la Disparition, la scomparsa. È un giallo e racconta una serie di omicidi. Venne recepito come un giallo ed ebbe recensioni più o meno favorevoli, che facevano notare la presenza di una lingua un po’ barocca e artificiale, per sostenere che il plot era piuttosto debole. Finché una recensione colse finalmente nel segno, e mostrò che la vera scomparsa riguardava la lettera e. In questo romanzo di 300 pagine non c’è mai la lettera "e". Ora, ovviamente, il lipogramma può essere più o meno significativo. Potrei dire , ad esempio, che fino a questo momento tutto il mio discorso è stato un lipogramma in x, ma non avrei indicato nulla di particolarmente interessante, visto che (fatta eccezione per il totocalcio) si tratta di una lettera quasi assente nella lingua italiana. Diverso invece è notare, come pure è stato fatto, che nell’opera di Kafka non esiste l’aggettivo "ebreo". Davanti a una affermazione del genere, vediamo che la restrizione lipogrammatica diventa senz’altro più interessante. Si tratta cioè di togliere un elemento che costituisce il cuore del discorso. Nella lingua francese, la "e" risulta la più frequente delle cinque vocali. Ecco perché, togliere quella e, poi toglierla da un romanzo, e soprattutto notare che a toglierla è un autore che si chiama Georges Perec, inizia a portare degli elementi sempre più curiosi e significativi. Ci sarebbe molto altro da dire, ma torniamo al punto della traduzione: come tradurre un lipogramma? In Italia il traduttore Pietro Falchetta è riuscito in quest’opera. Alcuni capitoli dello stesso romanzo sono stati tradotti senza la "e" anche da Gianni Celati. Io ho lavorato sul confronto, notando che mentre Celati evita la "e" in una direzione di aulicizzazione del discorso (che diventa molto alto, molto più colto e nobile dell'originale), Falchetta trova al contrario soluzioni in cui possiamo rintracciare forme di plurilinguismo, oppure l'introduzione di marche di oggetti, in questo più vicino a Perec. Perec, ad esempio, per non dire "montre", che vuol dire orologio, dice qualcosa come "swatch", e per non dire "musique" dice "jazz" e così via…

Se non sbaglio tu hai tradotto un sonetto di Perec in italiano che però era stato tradotto da Perec dal francese… in francese. Cosa pensi di questa tauto-traduzione?
È un caso, che a me sta molto a cuore; la tautotraduzione: la traduzione di un testo da una lingua alla stessa lingua. Qui andiamo oltre il caso del racconto Babette’s feast di Karen Blixen, che si autotraduce (la Blixen scriveva i suoi romanzi in inglese, ma poi li traduceva in danese, la sua lingua materna) in modo che la sua lingua materna retrocedeva rispetto alla lingua acquistata. Con Perec andiamo oltre: dal francese al francese. Sembra un po’ il Pierre Menard di Borges, che traspone il testo del Don Chisciotte dallo spagnolo allo spagnolo e che, per George Steiner è la massima allegoria della traduzione: il delirio di uno scrittore che traduce un testo nella stessa lingua di partenza. L’esempio più curioso che mi viene da aggiungere è quello di Charles Ogden; mi riferisco in particolare a un capitolo dei Finnegan’s Wake, di Joyce, capitolo talismano, che è stato tradotto in francese da un’équipe, composta tra gli altri da Soupault e da Beckett, in italiano dallo stesso Joyce, insieme a Nino Frank. È l’unico lacerto joyciano in lingua italiana: una cosa di cui andare fieri. L’italiano ha un testo di Joyce originale! Nella serie trilingue della collana Einaudi "Scrittori tradotti da scrittori" che ho diretto per alcuni anni, c’è un saggio di Umberto Eco che racconta la storia di questa traduzione. Il testo di Joyce non ha quasi più nulla a che vedere con quello originale: si tratta di un vero e proprio Joyce originale. Quanto alla traduzione di Ogden in Basic English, il suo autore sosteneva che, essendo quello di Joyce «joycese» e non inglese, avesse bisogno di una traduzione in inglese. Ma c’è un altro esempio di tautotraduzione, forse ancora più bello, perché racconta una storia degna forse di Henry James. Dunque, dai quaderni di Valéry, sappiamo che il Cimitero marino (che Cesare Brandi considerava la più bella poesia del Novecento), nacque da un’intuizione di ordine metrico. Valéry ha poi giocato su questa leggenda, e in un’intervista del 1942 dice: «L’idea del Cimitero marino mi venne perché abitavo in un albergo di Marsiglia e il rubinetto non si chiudeva: questo sgocciolio mi dette la scansione metrica del testo». Prima è venuto il guscio sonoro, poi l’ho riempito. In origine ci sarebbe addirittura lo sgocciolio del rubinetto. Comunque, quel che importa è quanto si legge in una pagina: «Il metro che scelsi per comporre il Cimitero Marino era l’alessandrino. Soltanto dopo, riflettendo, la poesia, per così dire, perse un piede, regredì e finì per assumere l’andamento del decasillabe francese, un verso molto poco usato, molto esotico e strano per le orecchie francesi, ma che è l’identico dell’endecasillabo italiano e spagnolo». Infatti Cimitero Marino è un’opera aperta nel senso del meridione, delle civiltà della Spagna e dell’Italia, e finisce per prendere il metro di queste due grandi culture. Così, la poesia fu somposta in decasillabi, benché Valéry fosse stato tentato dall’alessandrino. Siamo di fronte a un ennesimo caso di traduzione diciamo così «endogena», che si compie all’interno della stessa lingua. Un testo migra, ma senza abbandonare la dimensione linguistica originale, o per ragioni di carattere compositivo, come nel caso del lipogramma, o per ragioni di carattere estetico, come in Valéry.

Tu sei traduttore ma anche poeta e poeta a tuo volta tradotto. Hai collaborato alla traduzione di te stesso? Che esperienza è stata?
Ricordo in particolare un’esperienza avuta con dei traduttori tedeschi. Essendo traduttore, finivo ovviamente per collaborare con loro e in certi casi per litigare (per fortuna non sempre). Ma forse proprio in quei casi c’è stato molto da apprendere. Una volta è accaduto un fraintendimento che ha fatto nascere un’altra poesia. C’è un mio testo in cui parlo del gioco dello Shangai. In particolare, i versi parlano dei legni dello Shangai. Il risultato è che ne è nata una poesia sul fiume Shangai traversato da legni (in italiano ovviamente «legno» sta per «barca»). Insomma veniva fuori un’immagine fluviale straordinaria e plausibile. Io credo che se lì non ci fosse stato un intervento di rettifica, sarebbe nato un clone, non so come chiamarlo, una poesia altra e uguale allo stesso tempo, proprio perché basata sugli stessi elementi.