Bob Dylan e l'arte della parola

Bob Dylan e l'arte della parola

Intervista al musicologo Alessandro Carrera

Bob Dylan e l'arte della parola
È andato a Bob Dylan il Premio Nobel 2016 della Letteratura:

Per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione musicale americana

Bob Dylan, il cui vero nome è Robert Allen Zimmerman, è nato a Duluth  il 24 maggio 1941. Nel corso della sua lunga carriera il suo stile musicale ha spaziato dal country al blues, dal gospel al rock and roll, dal jazz all musica popolare inglese, scozzese e irlandese. È sempre stata forte l’influenza della letteratura e dalla storia americana sui testi delle sue canzoni. Ha dichiarato il musicologo Alessandro Carrera, autore del saggio La voce di Bob Dylan, Una spiegazione dell’America (Feltrinelli):

Se Dylan torreggia sopra tutti non è perché sia un poeta che scrive anche canzoni o un autore di canzoni che scrive anche poesie, ma perché l’intensità con la quale ha fatto cozzare linguaggi diversissimi tra loro è unica e irripetibile.


In questa intervista per la trasmissione Cult Book Alessandro Carrera ha risposto ad alcune domande sul cantautore americano.

Bob Dylan è un poeta?
Dylan è senz’altro un poeta, ma non dello stesso genere a cui potrebbero appartenere T.S. Eliot o Montale. È un poeta perché ha inserito nel suo medium, che è quello della canzone, tutta la forza della poesia, del simbolismo, del modernismo di fine Ottocento e del Novecento. Ma Dylan resta soprattuto un cantante, che è più di un autore di canzoni o di un autore di versi per canzoni, perché il cantante deve saper unire i differenti media che sta usando e trasformarli in qualcosa che è di più della somma delle differenti parti. Questo è quello che Dylan è riuscito a fare, in lui si uniscono l’arte della parola, quella della musica e della voce, oltre quella della perfomance. Certo Dylan è anche un narratore, ed è forse più narratore che poeta: ha scritto dei versi bellissimi, ma soprattutto ha inventato storie e ha inventato un modo di raccontarle in canzone. Molti raccontano storie in canzoni, la ballata narrativa è un antichissimo genere della canzone. Dylan si è trovato a utilizzarla negli anni Sessanta, quando la ballata narrativa era impiegata per le forti esigenze del momento: era una ballata topical, che sta per politica, impegnata, che tratta di argomenti del giorno. Ma Dylan non ha mai trattato questi argomenti in maniera strettamente lineare, o lo ha fatto molto raramente. Ha preferito creare delle situazioni allusive o, certe volte, circolari, in cui la storia, una volta sentita, ci lascia sempre qualcosa di non ancora spiegato, ci fa venir voglia di riascoltare la canzone, perché non ci ha detto tutto al primo ascolto. Cosa che molti altri folk singer avevano fatto: lui stesso ha detto che scrivevano canzoni come articoli di giornali. Dylan invece non l’ha mai fatto, neanche quando ha raccontato fatti che aveva letto sul giornale del giorno prima, ha sempre trovato un modo poetico e allusivo per raccontarli. 

Quali sono gli autori di riferimento per Dylan?
Dylan è stato influenzato dai poeti che ha letto quando aveva diciotto-vent’anni a Minneapolis e a New York; ed erano i poeti che allora tutti leggevano, come Elliott, Ginsberg e tutta la scuola della beat generation, ma soprattutto Rimbaud. Forse non c’è stato nessun poeta che abbia avuto su di lui quell’impatto che ha avuto Rimbaud, tra il ’62 e il ’65.

Dylan è un autodidatta: ha seguito poco, quasi per nulla, l’università e si è scelto le sue letture da solo, si è lasciato andare alla casualità degli incontri.

Ha letto sicuramente moltissimo, assimilando e imparando quello che voleva, e lasciando perdere quello che non gli interessava, come fanno gli autodidatti. Non bisogna dimenticare che Dylan è soprattutto un grandissimo conoscitore della tradizione della musica popolare americana: i veri testi di riferimento, più che quelli scritti, sono i testi del blues, le grandi ballate narrative della tradizione anglosassone. 

Qual è la differenza tra il “viaggio” di Kerouac e quello di Bob Dylan?
Il viaggio di Kerouac è un viaggio alla scoperta dell’America sulla scia del percorso dei pionieri, che va da Est a Ovest. Il grande viaggio “mentale” di Dylan, mai raccontato come tale in una sua canzone, ma diluito in diverse canzoni, è il viaggio dal Nord al Sud degli Stati Uniti, dalla provincia “bianca” a emigrazione europea, il Minnesota dove lui è nato, verso la scoperta della cultura nera, attraverso il grande nastro dell’autostrada 61, che va dal Minnesota a New Orleans, e che era l’autostrada attraverso cui sono saliti i neri che emigravano dalla Louisiana e si stabilivano a St. Louis o a Chicago.

Dylan ha percorso al contrario questa strada andando alla ricerca del blues, del soul, della cultura nera. Questo è uno dei grandi viaggi che Dylan ha compiuto nella sua opera, ma ce ne sono molti altri: tutta l’opera di Dylan è “in cammino”.

Il primo verso della prima canzone di Time out of mind – “I am walking” – è proprio una dichiarazione per Dylan: “io sono uno che sta camminando”, sempre. 

È possibile vedere Dylan come una sorta di “ebreo errante”?
Dylan potrebbe essere una personificazione della leggenda dell’ebreo errante. Lui non ha, in realtà, mai cercato un ritorno a casa, a una patria reale. In fondo anche lui ha una patria, è quella di cui canta in Highlands, la canzone che chiude Time out of mind: è un luogo mitico, una sorta di paradiso perduto, dove giacciono le origini della grande tradizione della musica popolare. Quella è la patria che lui ha cercato di raggiungere, che non è la “sua” patria, della sua origine di ragazzo che nasce dalla piccola borghesia ebraica del Nord degli Stati Uniti; è una patria che ha forgiato lui e che per tutta la vita ha cercato di raggiungere, pur sapendo che forse non ci sarebbe mai riuscito, sapendo di non poter mai raggiungere l’autorità mitica dei grandi bluesman. 

Cos’è la Rolling Tunder Review? 
Nell’autunno-inverno 1975, Dylan inizia un tour breve ma densissimo, che chiama Rolling Tunder Review. Solo dopo scopre che, nella lingua di alcune tribù indiane, il “tuono rotolante” è la metafora della verità. È un viaggio alla riscoperta degli anni Sessanta, di ciò che ne è rimasto.

Nel 1975 finisce la guerra del Vietnam, si devono rimarginare le ferite, e Dylan ha l’idea di riunire intorno a sé alcuni dei protagonisti degli anni Sessanta, di “metterli su un autobus” e di vedere cosa succede.

Quindi si mettono in viaggio Joan Baez, Jack Elliott, Joni Mitchell e molti altri: percorreranno i luoghi dove i pionieri erano sbarcati dall’Inghilterra, i luoghi dov’è iniziata l’America; non è un caso che il primo dei concerti venga tenuto a Plymouth. Da lì, in tutto il territorio del Nord-Est, c’è come la voglia di fare il punto su quello che è diventata l’America, dall’arrivo dei pionieri fino a quel momento.

Kerouac e Dylan si sono mai incontrati? 
No, e sono peraltro due personaggi molto diversi. Kerouac non si è mai liberato del tutto della sua origine bianca, piccolo borghese, di certi suoi pregiudizi. Dylan, invece, si è strappato di dosso la sua identità bianca. Non si sono mai incontrati, ma Dylan ha ammirato molto Kerouac e ha imparato da lui a usare alcune parole che non facevano parte della tradizione del folk: una canzone come Vicious of Johanna, chiaramente prende il suo titolo dal romanzo di Kerouac Vicious of Cody. Ci sono immagini, nelle canzoni di Dylan, dal ’64 al ’66, che Ginsberg ha dichiarato essere immagini alla Kerouac. C’è sicuramente stata un’influenza letteraria. 

Se dovessi raccontare la storia di Dylan, cosa diresti? 
La vita di Dylan è un’avventura per la straordinaria capacità che lui ha avuto di togliersi di dosso l’identità d’origine e di crearsene un’altra. Si decide nel momento in cui cambia nome, e da quel momento non torna più indietro, la strada è aperta verso una continua reinvenzione della propria vita. Ha rivissuto il grande mito americano, l’american dream, che però ha riscritto in maniera originale: non è il sogno di sitemarsi in un’altra terra – quello l’avevano già fatto i suoi nonni e i suoi padri – lui questa terra la esplora e la sente come sua, senza sentire alcuna divisione tra sé, la propria etnia e le altre culture di cui l’America è composta. Questa è la sua avventura.

Nel 1987 Dylan stava dando molti concerti, ma non era affatto sicuro della direzione in cui stava andando. E in effetti, molti di quei concerti sono carenti dal punto di vista della partecipazione o della voce, finché, in un concerto a Lugano ebbe una sorta di illuminazione: invece di andare in giro con grossi gruppi e fare grosse tournè da rock star, decise di cantare le proprie canzoni ovunque, in qualunque situazione e circostanza.

Questo è quello che ha fatto dal 1988 fino ad oggi. Ha rinunciato completamente agli orpelli della rock star, non si è più presentato con grandi gruppi, cori, scenografie, si è limitato a un trio, che adesso è diventato un quintetto; ha scelto di suonare anche in teatri piccoli e in club, e – anche se a volte ha suonato in stadi con molto pubblico – non ha più voluto porsi alcun obbiettivo di grandezza. È stata una scelta di umiltà, di ritorno a quello che è il lavoro del “menestrello”. Dall’’88 ad oggi ha creato un’opera infinita: una sorta di istallazione musicale che ormai prosegue da sedici anni al ritmo di 120-140 concerti l’anno. È qualcosa di cui non riusciamo assolutamente a immaginare i limiti, che non possiamo più circoscrivere. 

Nell’immaginario di Dylan quanto è forte l’influenza dei testi biblici? 
Dylan è sempre stato un lettore della Bibbia, per alcuni anni l’ha considerata una fonte letteraria di metafore e suggestioni. Poi ha avuto una conversione verso una forma di cristianesimo evangelico americano, che è durata un paio d’anni; quindi ha avuto un ritorno alla fede ebraica e attualmente il suo rapporto con la religione è mediato nelle forme di religiosità della canzone popolare. La Bibbia è il grande codice della narrativa occidentale, serbatoio della storia della caduta e della redenzione. Dylan non sfugge a questa strategia di caduta e redenzione, la sua opera potrebbe essere letta come una sorta di ripetizione della Bibbia, una grande storia di ritorno al paradiso perduto. I temi dell’Esodo sono fondamentali: l’essere esiliati dall’Eden e il doverci ritornare, affrontando delle prove, questi sono i temi di grandi canzoni che vanno da Gates of Eden alla recente Try to get to Eden.